Americanah
Tra i tanti pregi che hanno i libri c’è anche quello di aiutarci a capire prospettive che non ci appartengono e realtà che ci sono estranee. Attraverso il processo di immedesimazione con i personaggi, di cui ci appassioniamo, entriamo davvero nei loro panni e impariamo che la vita non si esaurisce nei confini limitati della nostra zona confortevole. Questo succede anche leggendo Americanah di Chimamanda Ngozi Adichie.
L’AUTRICE
Chimamanda Ngozi Adichie è nata il 15 settembre 1977 a Enugu e cresciuta a Nsukka, nel sud della Nigeria. A diciannove anni vinse una borsa di studio per l’Università di Drexel a Philadelphia, dove visse per i due anni successivi. Americanah è il suo terzo romanzo dopo Ibisco Viola e Metà di un sole giallo che hanno ricevuto molti riconoscimenti internazionali.
LA TRAMA
Il romanzo parte dal momento in cui Ifemelu, che si è trasferita negli Stati Uniti per finire l’Università e ha acquisito una buona posizione professionale ed economica, sta per rientrare in Nigeria. La sua scelta di tornare in Africa dipende soprattutto dalla relazione con Obinze, amore della sua vita, interrotta improvvisamente ma mai del tutto dimenticata. Le prime parti del libro sono un lungo flashback in cui si raccontano le vite di Ifemelu e Obinze tra Nigeria, Stati Uniti e Inghilterra. Solo alla fine si torna nel presente, in Nigeria, dove avverrà il loro nuovo incontro.
DA NOTARE
La scelta di cominciare il romanzo con la rievocazione del passato dei protagonisti consente all’autrice di svelare poco a poco la loro storia, mantenendo in questo modo alta la curiosità del lettore nei confronti delle loro vite. Ma è anche l’occasione per anticipare quel senso di “non risolto” che muove la protagonista a tornare in Nigeria e che viene annunciato fin dalle prime pagine del libro (cit.”Il cemento che sentiva nell’anima”). I personaggi, credibili e sfaccettati, prendono vita mediante i dialoghi e l’evoluzione psicologica a cui si assiste nel corso della narrazione. I toni del racconto variano tra il drammatico e l’ironico, senza mai prestare il fianco al pietismo che argomenti come la questione razziale, l’immigrazione, la difficoltà di essere sé stessi in un paese diverso da quello d’origine rischiano a volte di portare con sé.
INCIPIT
Princeton, d’estate, non aveva odore, e anche se a Ifemelu piacevano la verde tranquillità dei tanti alberi, le strade pulite e i palazzi imponenti, i negozi un filo troppo cari e la quieta, persistente aria di meritata grazia, era proprio questo, l’assenza di odore, ad attirarla di più, forse perché le altre città americane che conosceva bene avevano tutte un odore ben distinto. Philadelphia aveva l’aroma muffito della storia. New Haven sapeva di abbandono. Baltimora puzzava di salamoia e Brooklyn di immondizia scaldata dal sole. Ma Princeton non aveva odore. Lì le piaceva respirare a pieni polmoni.
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