Apologo del giudice bandito
Leggere è un piacere e il tempo che dedichiamo ai libri un regalo che facciamo a noi stessi. Ma è anche un’azione che richiede volontà e concentrazione, perché se ci distraiamo o siamo stanchi rischiamo di non capire o di dimenticare presto quello che troviamo scritto. Alcune letture poi necessitano più attenzione di altre perché ci obbligano a sintonizzarci con lo stile dell’autore, entrare nel suo linguaggio. Quello di oggi è un libro così. Si tratta dell’Apologo del giudice bandito di Sergio Atzeni.
L’AUTORE
Sergio Atzeni fu uno scrittore e giornalista, nato in provincia di Gagliari nel 1952 e morto prematuramente sbattuto da un’onda sull’isola di San Pietro, nel mare di Caloforte, nel settembre del 1995. Nelle note biografiche riportate in fondo al libro “Apologo del giudice bandito”, editato da Sellerio nel 1986, dopo la data e il luogo di nascita dell’autore si legge soltanto un’altra laconica frase: A Cagliari vive e lavora come digitatore di calcolatori elettronici. Nient’altro. Non stupisce però, perché basta leggere i suoi testi per capire che il tratto identitario e letterario più forte sta tutto lì: nel suo essere sardo.
LA TRAMA
L’Apologo del giudice bandito è un romanzo breve di appena 141 pagine, ma riassumerne la trama in poche righe è impresa complicata. Non esiste una sola ma tante storie, non uno ma tanti personaggi, un brulichio di azioni, episodi, miserie e bassezze umane che ruotano intorno ad un fatto storico incredibile: il processo indetto dall’Inquisizione spagnola nel 1492 contro le locuste che infestavano la Sardegna. Un auto da fé a tutti gli effetti usato come pretesto per incastrare rivali, tacitare poveretti, nascondere nefandezze, imporre egemonie. Tanto rumore per nulla, verrebbe da dire, un darsi da fare continuo perché tutto rimanga esattamente com’è.
DA NOTARE
Ci sono romanzi in cui l’accadimento è determinante, se manca il libro non decolla. E poi ci sono romanzi, come questo, dove l’accadimento manca quasi del tutto, ma l’azione dei personaggi, il loro essere in scena, bastano da soli a fornire lo spaccato di un’intera epoca e di uno specifico luogo. Attenzione, però: bisogna essere scrittori molto capaci per riuscire in questa operazione. Qui siamo nel 1492, viene dichiarato nella prima riga del romanzo, in Sardegna, si evince fin da subito dai soprannomi, dai toponimi e dai termini dialettali usati e nel giro di qualche pagina saltano fuori anche i “soldatos” e il “vicerè” a sottolineare la dominazione catalana che fa da filo rosso a tutto il romanzo. Atzeni non racconta, illumina azioni e personaggi usando le parole come riflettori. Non gli interessa argomentare, vuole rappresentare e il lettore non si deve aspettare di essere condotto per mano fra le righe della sua prosa, ma deve costruirsela da solo, frase dopo frase.
INCIPIT
Una mattina di primavera dell’anno 1492, in un podere dalle parti di Sarasgiu, Lilliccu solleva la schiena. Ha zappato dalla prima luce e non ha visto che terra dura aprirsi, avara, neanche il sudore l’ammorbidiva. Dolgono le costole e le reni. – Lavoro maledetto – sussurra. Chiude gli occhi e poggia la mano destra sul manico della zappa. Sudore denso, viscido, cola sulle palpebre. Con lentezza rassegnata afferra un lembo della camicia terrosa e lo sfrega sulla faccia coperta di mosche grasse che succhiamo e si lasciano schiacciare, sazie e torbide, beate. Lilliccu apre gli occhi. L’aria è liquida, i contorni delle cose bisce in fuga, miraggi, barbagli luccicanti.
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