“Charles Bukowski era un alcolizzato, un donnaiolo, un giocatore incallito, un delinquente, un taccagno, un lavativo e, nei suoi giorni peggiori, un poeta.”

Nel libro La sottile arte di fare quel che c***o ti pare­ Mark Manson descrive così lo scrittore Charles Bukowski, autore che non rientra tra i miei preferiti, se non per alcune poesie che ritengo geniali per audacia e coraggio di essere se stesso fino al midollo.

Ho particolare simpatia per chi, scevro da regole, si tuffa nell’oceano dell’esistenza privo dei confini che la società, nel bene e nel male, impone.

Bukowski era impiegato in un ufficio postale, lavoro che riteneva odioso, ma sufficiente a guadagnare soldi che spendeva per bere, le corse dei cavalli, e se avanzava qualche dollaro, con le prostitute. Ma Charles amava scrivere poesie con la sua decrepita macchina da scrivere, poesie che fino al compimento dei suoi cinquant’anni nessuno ebbe il coraggio di pubblicare. Accumulava rifiuti dalle case editrici, tanti quanti i bicchieri vuoti sul suo tavolo a fine serata.

Dopo trent’anni passati tra alcol, gioco d’azzardo e droghe, finalmente la svolta. Un piccolo editore gli propone un contratto, il compenso non è un granché, ma Charles non si fa sfuggire l’occasione, sa di avere solo due possibilità: rimanere in posta e impazzire, o stare fuori a giocare allo scrittore e morire di fame. – Scelgo di morire di fame – disse, e in tre settimane scrisse Post Office, il primo di una lunga serie di romanzi, a cui seguirono raccolte di racconti e poesie.

Sentiamo storie del genere e diciamo: Vedi? Non si è mai arreso. Non ha mai smesso di provare. Ha sempre creduto in se stesso. Ha persistito contro tutto e tutti ed è diventato qualcuno.

Secondo Manson, il successo di Bukowski non nasce dalla volontà dell’autore di essere un vincente, ma dalla consapevolezza di essere un perdente, un fallito che non ha mai fatto mistero delle proprie debolezze; le ha accettate e ne ha scritto con lucida onestà. Chearles non voleva essere altro che se stesso ed è quello che ha manifestato per tutta la durata della sua esistenza.

Bukowski non è diventato una persona migliore, ha continuato la propria vita tra alcol, droghe, gioco d’azzardo e prostitute, non hai mai cercato di essere altro, non si è mai preoccupato delle buone maniere: imprecava, si denudava in pubblico, alle presentazioni recitava le poesie visibilmente ubriaco, e ha continuato a cercare di portarsi a letto tutte le donne che incontrava.

Per quanto mi riguarda non credo sia una buona idea vivere una vita dissoluta tra alcol, droga e gioco d’azzardo, e di certo non la consiglierei a nessuno, ma questa appunto non è la mia vita, non è la mia unicità, è quella di Bukowski. Cosa sarebbe successo se il nostro autore avesse deciso un giorno di diventare una persona migliore, – tra l’altro, migliore secondo chi? – probabilmente sarebbe morto di noia tra i timbri di un ufficio postale e il mondo non avrebbe conosciuto uno dei poeti più eccentrici, capace di versi memorabili, discutibili, di una bellezza cruda, graffiante fino a lasciare cicatrici nell’anima.

Dopo anni, ancora mi sorprendo di quanto la pratica della scrittura sia uno dei mezzi migliori per raggiungere l’essenza. La scrittura di sé, il raccontarsi, evidenzia sempre le sovrastrutture che abbiamo alzato per tenere in piedi un’identità costruita, non veritiera. Al contrario, è in grado di mostrarci una direzione consona al nostro essere, riportando luce dove per troppo tempo hanno regnato le tenebre. La felicità, una vita piena, vissuta è proporzionale al grado di accettazione che abbiamo di noi stessi.

Bukowski l’ha fatto. Discutibile o meno, nessuno può dire che non abbia vissuto, libero, senza vergogna alcuna: un gran regalo a se stesso e a tutti quelli che amano la letteratura.

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