Quand’è che ci si può definire scrittori?

Ho sempre un senso di imbarazzo quando devo specificare la mia professione da inserire sulla carta d’identità. Giornalista? No, non sono iscritta all’Ordine. Scrittrice? Non oserei mai attribuirmi un appellativo che appartiene a donne del calibro di Virginia Woolf, Elsa Morante e J.K Rowling. Quando ho proposto all’impiegato comunale di scrivere “mestierante della parola scritta”, mi ha guardato come fossi pazza.

“Ma tu, che fai?” è la domanda che mi viene posta spesso. E già, che faccio? Scrivo. L’ho sempre fatto, per me stessa, per la scuola, per l’università, per il lavoro di ufficio stampa. Ma a nessuno, men che meno a me, è mai venuto in mente di definirmi “scrittrice”. Perché il fatto è che una cosa diventa realtà solo nel momento in cui si fa “oggettiva”, quando il tuo nome e la tua firma escono dalla sfera privata e diventano di dominio pubblico, “leggibili”.

Quando ho cominciato ad essere visibile, allora? Faccio fatica a riavvolgere il filo del tempo e dei fatti. Ancora oggi sono reperibili miei articoli scritti anni fa per mensili e quotidiani italiani, ma quelli, nonostante il lavoro e lo studio che mi sono costati, non riesco a considerarli l’inizio di una “carriera”.

Cogliere le opportunità

Come spesso mi è accaduto e continua ad accadermi, è stato il Caso, quello con la lettera maiuscola, a trasformare un’idea e un desiderio in realtà.

Vivevo già da qualche anno a Parigi, in un appartamento “di funzione” (così lo definiscono i Francesi) datoci dall’azienda di mio marito. Un appartamento di quelli tipici della capitale, con una vista straordinaria sulla Tour Eiffel.

Alle mie bambine (all’epoca non erano ancora nati gli altri due) raccontavo la storia di quella torre che, nonostante fosse diversa da tutte le altre, era diventata famosa, amata, unica. Come spesso succede con i bambini, ogni volta che iniziavo il racconto, ero invitata ad aggiungere particolari e avventure. E ogni volta mi dicevo che quella storia l’avrei dovuta scrivere, ne avrei dovuto lasciare traccia per non perderla nei meandri della memoria. La quotidianità prendeva sempre il sopravvento e l’intenzione non si traduceva mai in realtà.

Una sera sono stata invitata a cena da amici italiani, residenti a Parigi da tantissimi anni. Fra i commensali c’era anche una giovane coppia di Francesi che, dopo anni di lavoro in due delle principali case editrici d’Oltralpe, aveva deciso di lanciarsi nella coraggiosa avventura di creare una propria maison d’édition.

L’idea di racconto diventa un libro per bambini

Una chiacchiera tira l’altra e, a un certo punto della serata, ho raccontato loro della mia storia e del sogno che avevo di vederla pubblicata. Quando i loro occhi si sono illuminati ho pensato a una mia illusione ottica o all’effetto del buon vino sorseggiato durante la cena. Cosa mi stavano dicendo? Che in Francia non esisteva ancora un racconto per bambini sulla torre simbolo del Paese? Che della Tour Eiffel si era scritto tanto, ma non la si era mai fatta diventare la protagonista di un album illustrato? E che la mia idea di parlare, attraverso la Dama di Ferro, anche di diversità e unicità avrebbe potuto essere vincente?

Sarebbe una bugia se dicessi che, dopo quella sera, il libro è comparso nelle librerie come per effetto di una bacchetta magica. Alle intuizioni sono seguite le verifiche precise sui cataloghi esistenti, gli incontri con i librai per tastare l’eventuale interesse e il fatidico conto economico. Per editori nuovi sul mercato ogni nuovo volume è una sfida e un rischio, ma i coniugi Thomas hanno deciso di correrlo quel rischio.

Scrivere in una lingua diversa

E così mi sono ritrovata con un semaforo verde davanti agli occhi e il via libera a quel racconto che avevo ben chiaro in testa, ma che aveva bisogno di prendere forma, di diventare testo. Ho “dovuto” cogliere la sfida di scrivere in francese, una lingua che conoscevo e parlavo bene, ma che non era la mia lingua. Ci sono cose che, indipendentemente dalle regole generali, è difficile rendere in un idioma diverso da quello materno: esprimere il proprio amore, soffrire e scrivere sensazioni che vengono dal cuore. Mi sono immersa nel linguaggio delle mie bambine, quello intriso di modi di dire e di espressioni infantili, perché il pubblico a cui mi volevo rivolgere era proprio quello dei più piccoli.

L’importanza delle illustrazioni

Fin da subito l’idea era quella di farne un album illustrato. Insieme agli editori abbiamo lanciato un “appello” nel mondo degli illustratori (parliamo di quasi 12 anni fa e la rete non era attiva come oggi) e abbiamo incontrato Leonore Thelin, una giovane illustratrice svizzera che non era mai stata a Parigi, ma che riusciva a disegnarla in modo straordinario. Laddove la mancanza di conoscenza dei luoghi descritti nel racconto creava dei problemi di rappresentazione, ho sopperito inviandole foto di monumenti e scorci della Ville Lumiere e lei è riuscita a rendere vive, in immagini, le mie parole.

È stato un lavoro di squadra eccezionale, una fusione perfetta di desideri e di professionalità che ha unito Francia, Italia e Svizzera. Una “confederazione di sogni e progetti” in onore della torre più visitata del mondo.

“Il était une fois la Tour Eiffel” nelle vetrine delle librerie

Nell’autunno 2008 Il était une fois la Tour Eiffel è comparso sugli scaffali e nelle vetrine delle librerie. Nonostante l’ingombro del pancione (i gemelli sono nati nel gennaio 2009), ho iniziato le presentazioni, gli atelier e i famosi “firma libro”. Mi colpiva vedere sulle locandine e sugli inviti il mio nome affiancato al titolo di “autore”.

Ero diventata una scrittrice? Erano la “materialità” dell’oggetto libro e gli incontri con i lettori a decretare il mio mestiere? Potevo ritenermi capace di dare consigli a chi, come me, avesse una storia nel cassetto e desiderasse trovare un editore che la pubblicasse?

Sono passati 12 anni. Ho scritto altri libri che sono arrivati nelle mani di giovani lettori e ancora non me la sento di dare di me stessa una definizione che non mi appartiene, che non credo di meritare. Il Caso mi è stato amico e non smetto mai di ringraziarlo.

 

“Per favore, scriva mestierante della parola”, ho insistito con l’impiegato comunale.

“Se non sono matti non li vogliamo”, ha detto alzando gli occhi al cielo (e poi, sulla carta d’identità ha messo “scrittrice”).

 

Foto di Tumisu da Pixabay

 

 

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