Quante e quali chances siamo disposti a concedere ai libri che non ci avvincono subito?
Li abbandoniamo all’istante se l’incipit ci sembra debole? Concediamo loro qualche pagina per riscattarsi? Li portiamo avanti a fatica, ma poi cediamo e li chiudiamo a metà se ancora non scatta il coinvolgimento? Oppure li leggiamo lo stesso da cima a fondo con l’orgogliosa ostinazione di chi vive il proprio ruolo di lettore come un compito a cui è disdicevole sottrarsi?
Sono domande che mi pongo spesso nella duplice veste di lettrice e scrittrice.
Come lettrice tendo ad appartenere alla schiera di quelli che piuttosto stringono i denti ma cercano di arrivare fino all’ultima pagina dei libri, per puntiglio, per sapere come vanno a finire e per avere il diritto di circostanziare il mancato gradimento.
Ma confesso di aver ceduto qualche volta all’abbandono. Mi è capitato con quelle letture – a dire il vero poche, finora – che hanno urtato la mia sensibilità creandomi disagio. Tendo a prevenire tale eventualità evitando di leggere quei generi che so essere lontani dai miei gusti, ma a volte capita di incappare in testi insospettabili che, in corso d’opera, si rivelano diversi da come ci si sarebbe aspettati.
Per il resto cerco di terminare quello che comincio.
Ci sono elementi che affossano o, viceversa, attizzano l’entusiasmo della lettura e conoscerli è importante per evitare di perdere tempo con libri che non vale la pena affrontare o, ancor più, per cercare di evitare di scrivere testi che corrano questo rischio agli occhi degli altri.
Se paragoniamo l’atto di leggere o scrivere con l’azione del conversare, ci renderemo conto che ci sono tante affinità e che, forse, il nostro modo di gestire i rapporti verbali con gli altri la dice lunga sul tipo di lettori e di scrittori che siamo. L’incipit avvincente è come la persona che, in un contesto nuovo, attira la nostra attenzione e ci induce ad avvicinarla.
Il testo ben scritto è paragonabile al tipo che ci incanta con il suono della sua voce. Il libro che funziona è l’amico noto per la sua naturale attitudine nel raccontare storie, quello intorno al quale, quando parla, si raduna sempre un gruppo di persone affascinate.
Le pagine pesanti invece sono come quei soggetti logorroici che, riconosciuti da lontano, evitiamo di incontrare facendo finta di non vedere.
Scrivere è un gesto solitario, a volte persino intimo, ma che non basta a se stesso: necessita di un referente.
Sempre.
C’è bisogno di un destinatario per i nostri scritti, inconfessato o dichiarato che sia, non importa. È lui il movente che fa nascere l’urgenza di esprimersi, comunicare e dipanare il groviglio di sensazioni che ci lavora dentro. A volte si scrive anche per parlare con chi non c’è più, che se ne è andato prima che finissimo o – peggio – iniziassimo un discorso e con cui vogliamo lo stesso comunicare, perché abbiamo ancora qualcosa da dirgli e non è dato che un episodio irrilevante come la morte si arroghi il diritto di zittirci.
È il caso di “Mio fratello”, ultimo libro di Daniel Pennac edito da Feltrinelli, in cui l’autore, dopo la prematura scomparsa del fratello Bernard, sente l’esigenza di allestire la lettura scenica di un celebre racconto di Herman Melville, Bartleby lo scrivano, per il quale entrambi i Pennac nutrivano la medesima passione.
Brani in corsivo del racconto si alternano a pagine in tondo in cui l’autore rievoca ricordi e rilegge con gli occhi della distanza episodi, frasi e silenzi della propria vita con Bernard.
Ed è curioso notare come il laconico Bartleby, che nel racconto di Melville è noto per non dire niente di sé, abbia invece offerto ai fratelli Pennac così tanti spunti di conversazione e di confronto da oltrepassare il tempo di cui la vita ha concesso loro di disporre.
Perché la scrittura non fornisce soltanto l’occasione per parlare con qualcuno, ma dà anche la sensazione che quel qualcuno ascolti, anzi legga e, nonostante non possa rispondere alla missiva, annuisca complice alle parole che gli sono rivolte.
Come facciamo un po’ tutti quando leggiamo un libro che ci racconta.