Manifestiamo noi stessi quando siamo nel posto dove vogliamo stare, ma dove vogliamo stare, di solito, non è un luogo, per lo meno non in senso fisico.

Il mio posto nel mondo l’ho trovato là dove è sempre stato: nella mia pelle. Il disagio, quel senso di inquietudine che ho provato per tanto tempo, non è dipeso da altro se non dall’impossibilità di manifestare me stesso.

Non ho particolari talenti, niente di cui vantarmi, dunque per anni ho aderito a un ruolo e ne ho fatto un’identità, un esoscheletro che mi ha sorretto, una maschera che ha difeso le mie fragilità da un mondo che non capivo.

Mi piace l’essere umano, ne sono curioso. Degli altri amo le storie, le vite, sapere che cosa pensino del mondo, di loro stessi, cosa li muova, quali siano le loro passioni. È ascoltando e leggendo storie che mi sono sentito meno anormale, più incline a pensare che la vita, tutto sommato, non ci deve niente, e che l’unico obiettivo possibile sia ciò che io posso dare al mondo e non viceversa.

L’esperienza della dissociazione, cioè la disgiunzione tra ciò che pensiamo di essere e quello che siamo veramente, genera una serie di conflitti dei quali siamo sia vittime che responsabili, piccoli suicidi emotivi messi in atto per sentirci vivi. Non ricerchiamo davvero noi stessi, ma solo di allinearci all’idea che per convenzione, dovere o bisogno di appartenenza ci siamo fatti di noi. Allora partecipiamo a corsi, assecondiamo passioni, uno sport, un hobby, una relazione, ma poi, esaurita l’energia di un nuovo inizio, torniamo al punto di partenza.

Spesso rimaniamo in attesa dei frutti, trascurando la pianta, e quando i frutti non arrivano, ci spingiamo alla ricerca di altro, convincendoci che non sia quella la strada giusta per noi. Dimentichiamo che la vita ha valore in sé e non in virtù dei risultati che otteniamo.

Destrutturare l’esoscheletro è come potare una pianta, togliere il superfluo.

Nel mio caso si è trattato di un procedimento lento, non del tutto indolore. C’è voluta pazienza per capire che cosa togliere. A volte è bastata una leggera pressione di un polpastrello per staccare le foglie morte, altre volte ho dovuto recidere di netto dei rami, e per paradosso, questo si è rivelato meno complicato di quanto immaginassi. Nella sostanza ho separato quello che era già morto, o meglio, non era mai esistito se non nella mia mente.

Credo che se non fossi entrato in contatto con la scrittura non avrei avuto il coraggio di affrontare questo viaggio in me stesso. Scrivere di sé è un percorso che ci accompagna nel profondo, e ciò che è profondo non ammette superficialità né false identità.

La ricerca è dentro i limiti del proprio mondo, perché se non esiste un mondo a cui si vuole dare forma, non c’è neanche la possibilità di aprire nuove porte.” (Domenico Starnone).

Il mio posto nel mondo, l’ho trovato nelle parole scritte. Lì dentro c’è il fuoco dell’essenza, c’è tutto.

 

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