L’amore per i libri è sacro, se ne può parlare ma non spiegare. Per me è diventato talmente parte della vita da orientare non solo le mie letture, ma anche gli studi e le scelte.
L’amore per le lingue alla base dell’amore per i libri
Iniziare lo studio di una lingua straniera richiede predisposizione, c’è poco da fare.
Non tutti sono portati ad imparare nuovi suoni, altre parole, espressioni diverse dalle nostre.
Ma una lingua è molto di più. In fondo, è lo strumento con cui una cultura si esprime o lo ha fatto in passato. Alcune sono scomparse, ci sono minoranze sopravvissute in zone particolari e destinate a sparire col passare delle generazioni, altre invece si sono mantenute ed evolute.
Il primo amore, ai tempi della scuola, è stato senza dubbio l’inglese. Se cantavo Madonna o Prince, dovevo capire cosa volessero dire i testi oppure mi entusiasmavo con Coleridge e la sua Ballata del vecchio marinaio. In seguito, all’università, ho apprezzato il francese. Ma la vera scoperta è stata il tedesco, che non è affatto una lingua dura, come molti pensano.
La scelta di studiare l’ebraico
Per avvicinarmi all’ebraico ci ho riflettuto parecchio. Prima mi sono innamorata dei suoi scrittori e poi ho deciso che se davvero volevo andare a fondo, capire di più, l’unica soluzione era accostarmi alla loro scrittura.
Ci ho pensato e ripensato, finché non ho trovato il corso che faceva per me.
Accostarsi alla lingua ebraica significa bussare alla porta di un mondo incentrato su tradizioni millenarie e non nascondo che, all’inizio, mi incuteva un po’ di timore.
Si ha come la sensazione di iniziare a guardare tutto in modo nuovo. Tanto per cominciare il gesto di dover leggere da destra verso sinistra, cambia per forza il punto di vista con cui approcciarsi a una pagina. I caratteri, dalla forma così diversa, ribaltano l’usuale percezione del lettore. Dover ragionare su ogni parola, leggerla nella maniera corretta, capirne il significato richiedono un impegno non indifferente ma anche una grande soddisfazione.
Ogni parola ebraica ha una sua radice di derivazione. Senza radici nessun albero può vivere e, così, nemmeno un testo.
I verbi sono suddivisi in sette grandi gruppi, ognuno con la propria radice di lettere che si ripetono, proprio come la menorah ha sette bracci per accogliere le sue candele.
Una lingua radice di tradizione
Più ci si addentra nello studio, più si comprende che la lingua non può essere assorbita senza imparare anche le tradizioni e i rimandi biblici.
Il premio Nobel per la letteratura Shmuel Iosef Agnon, ha scritto molti racconti e romanzi che hanno fatto la storia dell’ebraico moderno. Durante un corso di letteratura israeliana sono rimasta folgorata da un suo racconto intitolato “Tehilla”. A una prima lettura l’ho trovato incantevole. In un secondo tempo, grazie all’analisi dell’insegnante delle parole chiave con significato e collegamenti a particolari passi biblici, ho capito un sottotesto che non avrei mai colto da sola e il racconto è diventato straordinario.
Amos Oz, sosteneva che “La comunità ebraica si fonda da sempre su parole dette e scritte, su un labirinto di interpretazioni, dibattiti e dissensi in continua espansione, su una relazione umana unica. […] La nostra è una linea non di sangue ma di testo.”[1]
Credo che sia stata proprio questa la sensazione che ho avuto, negli anni, immergendomi nei romanzi dei fratelli Singer (sorella compresa), di Amos Oz, David Grossman, Scholem Aleichem, Chaim Potok, Eli Wiesel e potrei proseguire. Gli autori di origine ebraica tramandano una linea di testo, una tradizione scritta che non trova pari in altre tradizioni.
Ghenizah, parola affascinante
Di recente, ad esempio, mi sono imbattuta nella parola Ghenizah (גניזה) e me ne sono innamorata.
La ghenizah è una parte della sinagoga destinata a deposito per testi ormai inutilizzati. Si tratta di fogli, libri che trattino di argomenti religiosi, ma non solo. Vi sono anche atti pubblici o notarili, lettere personali o legali, in cui compaia uno dei sette Nomi sacri di Dio. Basta un’invocazione iniziale, perché quel testo diventi sacro e, quindi, destinato all’eternità. Sono compresi anche documenti redatti in altre lingue, ma che utilizzino l’alfabeto ebraico (idiomi giudeo-arabi, il giudeo-persiano, il ladino o l’yiddish).
Tutti questi volumi vengono conservati nella Ghenizah per alcuni anni per poi venire seppelliti.
Ho trovato questa usanza di un fascino senza fine. Perché la parola, attraverso la sua sacralità, prende vita, viene protetta, difesa, custodita e, infine, congedata con la sepoltura.
La Ghenizah più grande e famosa è quella annessa alla Sinagoga di Ezra di Fustat presso Il Cairo e scoperta nel 1864 da Jacob Saphir che ha reso possibile riportare alla luce una mole incredibile di documenti e frammenti molto importanti per la ricostruzione della storia del mondo sia ebraico che di tutta la zona mediterranea.
L’amore per i libri diventa memoria
Riflettendo su questa usanza, ho trovato molte affinità con la relazione che un lettore forte ha con i propri libri.
In effetti, io non ho mai avuto il coraggio di buttarne uno. Anzi ho sempre salvato quelli che vedevo destinati al macero. Al contrario, ho donato volentieri volumi che non avrei più utilizzato, in varie biblioteche o angoli di bookcrossing. Il pensiero che qualcun altro, prima o poi, avrebbe riletto quelle pagine mi ha sempre rassicurato nel darli via. Anche il libro che ritenevo meno interessante non poteva essere buttato. Perché qualcuno ci aveva lavorato e io vi avevo trascorso del tempo. In un modo o nell’altro, dovevo comunque assicurare loro una continuità, una prosecuzione di vita.
I libri sono sempre stati la prima cosa che ho inscatolato durante i traslochi. Ho condiviso la libreria con un compagno e l’ho subito liberata non appena la storia è giunta al capolinea. Dopotutto, Woody Allen e Diane Keaton lo avevano già fatto molti anni prima.
Insomma, i libri che ho amato sono la mia memoria storica, i ricordi, parte della mia personalità.
Leggere dona emozioni, induce a riflettere, ci accresce e, in fondo, ci migliora.
Mi conforta, quindi, sapere che esista una lingua capace di essere custode di una ritualità che considera il libro qualcosa di eterno.
Anche noi lettori onnivori, forse, abbiamo uno spazio speciale, intriso di una sacralità tutta nostra fatta di parole, pagine e solide radici.
[1] Amos Oz, Fania Oz-Salzberger, Gli ebrei e le parole, Milano, Feltrinelli, 2013.
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