La fantasia è un posto dove ci piove dentro (Italo Calvino, Lezioni americane)
Maidenhead, novembre 1844, dall’alto di una collina. L’aria, un impasto di pioggia, nebbia e nuvole. Il cielo, tempestoso. La sfuocata visione che si apriva davanti ai miei occhi era quella di un paesaggio brumoso e inquieto, in cui tenui squarci di luce, qua e là, rendevano più nitidi alcuni dettagli.
Laggiù, sul prato, potevo scorgere delle persone che si sbracciavano, rivolte al ponte ferroviario, sul quale una locomotiva aggiungeva fumo e vapore all’aria che di vapori era già interamente impregnata. In basso, sulle acque del Tamigi, l’irruzione del treno nel paesaggio sembrava aver attirato anche l’attenzione degli occupanti di una barca.
Tra la pioggia battente e la scarsa visibilità, la locomotiva avanzava sul binario che da un punto indistinto dell’orizzonte si sviluppava in diagonale verso Est, lasciando intravedere dietro di sé le prime carrozze trainate.
Dalla barca, improvvisati spettatori osservavano; dal prato, in basso, altri salutavano con gesti accoglienti, totalmente in contrasto con la minacciosa energia suggerita dalla tempesta.
Continuando a osservare, magneticamente attratto dalla scena, riflettei che forse non era solo un treno, quello che si faceva largo nella tempesta, ma l’Idea del Treno. Cioè novità, progresso, velocità. Seduzione e magia, magari. Tutto quello, cioè, che in quegli anni, a breve distanza dalla loro nascita, le ferrovie stavano portando in dote all’immaginario collettivo, all’arte e alla letteratura.
Il treno iniziava da lì a offrirsi come pura narrazione: continuando a osservare la scena, immaginai anche il possibile incipit di una storia che parlava dell’eterna lotta tra la Tecnica e la Natura. Di mortali che sfidavano gli dei con l’ardire dell’umano ingegno. E pensai anche al racconto di una lepre che si insinuava veloce tra le rotaie, gareggiando a sua volta con la macchina, per poi scomparire in una vampata di nebbia e vapore. Forse il treno l’avrà travolta, forse avrà vinto lei…
Così, i miei pensieri, quel giorno in cui finalmente mi trovai alla National Gallery davanti a Pioggia, vapore e velocità, il dipinto di William Turner dal quale avevo tratto più di uno stimolo per decidermi a scrivere Destinazione immaginario, il libro che ho dedicato all’universo simbolico della ferrovia.
Non so se Turner possa essere considerato il più importante pittore inglese di ogni tempo. Per me è comunque uno dei “grandi” in assoluto: lo chiamavano “il pittore della luce” perché nei suoi paesaggi della luce sapeva restituire senso ed emozione, innalzandola a simbolo di divina potenza della natura. Tempeste marine e incendi erano temi fondamentali della sua ricerca espressiva, così come lo era l’idea dell’incalzante progresso, restituita su quella tela dalla circolarità della sfida che chiamava in causa la locomotiva, il cielo e un piccolo animale: la lepre che l’artista aveva collocato nel dipinto, appena tratteggiata, ma che con il tempo era praticamente scomparsa. Per vederne le tracce, oggi, occorre ingrandire enormemente la foto del quadro.
Quell’opera, ammirata nelle riproduzioni sui libri, primo quadro della storia in cui veniva ritratto un treno, dal vivo si era offerta in tutta la sua potenza narrativa: emozionato, l’avevo non solo scrutata in ogni sua parte, quella volta, ma anche ascoltata in ogni sua voce nascosta, proprio come se mi fossi trovato al posto dell’artista, quasi due secoli fa, sulla collina di Maidenhead.
Immedesimato nei panni di Turner, avevo visto comparire il treno e poi la lepre sul binario, spaventata e attratta al tempo stesso da quella presenza enorme, rumorosa e fumante che avanzava con prepotenza sul suo territorio. Nell’indefinita vaporosità della scena, occorrevano solo alcuni tratti di pennello per rendere l’animale appena riconoscibile prima che si dissolvesse nel nulla: le lepri, come i sogni, sono del resto destinate ad apparire e a scomparire rapidamente.
Mentre uscivo dal museo, ancora frastornato dall’esperienza, pensai che tutto è destinato a conservare la sostanza di sogno di cui siamo fatti, come ci ricorda Shakespeare in un’altra celebre “Tempesta”. E a lasciare in noi le tracce di un inesauribile e vitale racconto in cui siamo tutto e il suo contrario: lepri e treni, istinto e ragione, sogno e realtà, in una continua gara con noi stessi e con il mondo.
Chissà se Turner aveva in mente idee simili, mentre dipingeva il quadro. Chissà se aveva la consapevolezza di essere anche un grande narratore, oltre che uno straordinario pittore.
Affacciandomi su Trafalgar Square, nel ritorno alla realtà, pensai che forse mi ero lasciato trasportare un po’ troppo dall’immaginazione. Ma ero contento, e mi dissi anche che avevo fatto proprio bene a regalarmi quel viaggio a Londra.