Ricordi com’era all’inizio?

Sì. Scrivevamo pagine e pagine di diario, ma le odiavamo tutte perché, nonostante l’impegno, di noi, non raccontavano nulla. Erano confuse, destrutturate, senza voce o stile. Così le cancellavamo, tiravamo una riga o le strappavamo via dalla rilegatura. Quanto lavoro sprecato…

Ti correggo: quanta carta sprecata.

Cosa intendi dire?

Nessuna di quelle stesure è stata inutile. Lo spreco, semmai, è stato buttare via tutta quella carta – che invece andrebbe impiegata con riguardo – solo perché consideravamo quelle prime pagine come imperfette. Ogni riga scritta è stata necessaria, ha rappresentato un allenamento, è servita allo scopo. Dì tu quale scopo.

Parlare di se stessi ma nel modo giusto. Con diligenza.

Esatto. Ricordi cosa ha detto Duccio Demetrio nell’intervista con Emanuele Coen?

Riguardo l’utilità a scrivere un’autobiografia?

Proprio quello. Guarda, abbiamo qui l’articolo de “L’Espresso”. Te lo rileggo: “Parlare di se stessi, però, non significa buttar giù parole senza alcuna regola sintattica o impalcatura formale. Ogni testo, anche quello che leggeremo solo noi, ha le sue convenzioni. E i suoi obiettivi: cosa voglio raccontare, perché, come. Se mancano questi mattoni, la pagina diventa un ammasso di frasi che non ci portano a comprendere quello che attraversa il nostro cuore e la nostra mente, che non ci aiuta a disintossicarsi davvero dai nostri grumi interiori. Non aiuta a capirci né a farci capire.”

E da qualche parte bisogna partire…

Sempre. Non esiste eccellenza senza una costante pratica. Il talento è questo. Perciò anche quelle pagine odiose, destrutturate, prive di sintassi forse, di senso, con una lingua mediocre, sono servite per scavare in noi stesse.

Ma noi non stavamo ricercando il talento. Ci bastava trovare la nostra voce per parlare sinceramente di e con noi.

Bè, anche questa è una dote. Vogliamo riservare il talento solo per le occasioni o le opere che andranno mostrate al mondo?

Come pubblicare un libro e fare in modo che la gente sappia quali grandi scrittori siamo?

Abbandoniamo per un attimo l’arroganza e impariamo a essere umili e sviluppiamo una bravura prima di tutto per noi. Imparare a essere gli unici autori, critici e fruitori appagati del lavoro svolto.

Giusto.

Quindi: un diario per sviluppare un talento di noi e per noi.

È buffo.

Cosa?

Nell’era dei social, quando le nostre dita non fanno altro tutto il giorno che scrivere e scrivere post su Facebook o Instagram o Twitter, abbiamo bisogno di un altro spazio sempre inerente alla scrittura per rivelarci. Non lo facciamo tutti i giorni?

Non facciamo le ingenue, per favore. Conosciamo bene la freddezza dei social: ci esprimiamo con estrema sintesi, vuoi per il limite di battute imposto dal portale, vuoi perché il fascino e l’importanza del tuo profilo social sta proprio nella velocità con cui potrai collezionare un altro post. Questo condensato – che ci autoimponiamo, forse – ci porta facilmente a decidere di pubblicare qualcosa di semplice, che sentiamo solo in superficie. Inutile scavare, il troppo profondo è troppo complesso, e il troppo complesso è troppo lungo.

Giusto. E il troppo lungo poi, non lo leggerà nessuno.

Ah, giusto. Quindi in realtà scriviamo qualcosa di semplice perché qualcun altro lo legga. Scriviamo a qualcuno, non a noi stessi.

Eh, già…

Quindi il diario – o comunque la scrittura privata – è più che una terapia.

È un volersi bene.

Ed è encomiabile. Decidere di essere umili, di scrivere solo per il nostro piacere, il nostro giudizio, il lavoro su di noi, senza dipendere da un numero più o meno soddisfacente di “like” o commenti.

E soprattutto avere il coraggio di concedersi il tempo che la profondità di noi stessi richiede, allenarsi alla pazienza. Non è facile.

No, non è facile.

Noi lo abbiamo fatto?

L’abbiamo fatto e ci stiamo ancora lavorando. È un lavoro senza fine, se ci pensi.

Ma vale la pensa iniziarlo.

Guai se così non fosse. Che occasione sprecata altrimenti…

Ripenso a quelle pagine buttate che ora non potremo più rileggere. Senza di esse, mica eravamo qui.

Eh, no. Abbiamo fatto male…

Troppo male. Nessuna eccezione senza pratica e nessuna pratica senza inizio e nessun inizio senza errore.

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