Perché dedicare ancora tempo alla lettura e alla scrittura?

Quando una persona cara ci dà un libro da leggere, la prima cosa che facciamo è cercarla tra le righe.”

È una frase di Daniel Pennac, che amo molto e che mi emoziona ogni volta che incontro, perché non spiega soltanto quanto importanti ed evocativi siano i libri, specie se prestati o regalati da chi ci sta a cuore, ma contiene anche il significato più intimo del perché li si scriva.

Dare un senso ai propri gesti è fondamentale per continuare a compierli anche quando diventa difficile farlo. E prima o poi succede.

Affermare semplicemente: Leggere e scrivere sono la mia passione, non potrei vivere senza, può non significare niente se poi non riusciamo ad articolare una motivazione un po’ più convincente di così.

Leggere e scrivere è faticoso

Leggere è faticoso, questo va detto. Presuppone un atto di volontà, ci impone di trovare luogo e tempo adatti, di prestare attenzione, mantenere la concentrazione, non avere fretta. È faticoso anche da un punto di vista fisico, perché impegna la vista e il cervello. È un’attività esigente e per nulla connaturata nell’uomo.

Scrivere poi lo è persino di più: impegno, volontà, costanza, tempo. E ancora: grammatica, sintassi ortografia, struttura, tenuta narrativa, revisioni, riscrittura. Per arrivare ad un’opera compiuta la mole di lavoro è davvero enorme.

E come possono delle azioni faticose diventare un piacere? Non è che per caso quando parliamo di lettura e scrittura usiamo una certa retorica per convincere, soprattutto chi non le pratica, che sia invece edificante e opportuno dedicarvisi?

Nelle parole che cerchiamo quando scriviamo mettiamo noi stessi, in quelle che leggiamo troviamo gli altri e viceversa. Di fronte a questo la fatica sparisce per lasciare il posto alla commozione.

Il fattore umano

Scriveva nel 165 a.C. Publio Terenzio Afro nella sua commedia Heautontimorùmenos (Il punitore di se stesso):

Homo sum, humani nihil a me alienum puto.

vale a dire: Sono un uomo, ritengo che nulla di ciò che attiene all’uomo mi sia estraneo.

Tutto quello che interessa l’essere umano mi riguarda perché lo sono anch’io e ho bisogno di riconoscermi nell’altro, ho bisogno di raccontargli che cosa mi capita, che cosa provo, come sto. Allora scrivo.

Ma ho bisogno anche di sapere che cosa capiti, che cosa provino e come stiano gli altri. Allora leggo.

Quando a scrivere è un robot

L’intelligenza artificiale sta prendendo piede, in Giappone un romanzo scritto da un computer è risultato finalista in un premio letterario e già esistono Shelley Ai che scrive racconti horror e Xiaoice il primo poeta artificiale ad avere pubblicato un libro di poesie.

Le attività “creative” potrebbero nel breve non essere più appannaggio nostro.

Ma io non sto qui a domandarmi se in futuro le intelligenze artificiali scriveranno come o meglio dell’uomo, mi chiedo invece per volontà di chi dovrebbero farlo e sotto la spinta di quale motivazione.

I gesti potranno pure essere replicabili, ma se vengono compiuti soltanto per confezionare un prodotto si riducono a semplici automatismi e non credo che tra le pagine di un libro scritto da un robot potremo ancora ritrovare l’anima di chi ce lo sta regalando.

 

Photo by Ben White on Unsplash

 

 

 

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