La lingua italiana e l’invasione dei vocaboli inglesi
La questione della lingua italiana ha impegnato accademici e letterati in un dibattito durato ben cinquecento anni, ma gli sforzi titanici compiuti per forgiare l’italiano moderno rischiano di venir compromessi dalla supremazia linguistica angloamericana.
Si tratta di una vera e propria invasione di vocaboli inglesi che da qualche decennio interessa la nostra lingua, parlata e scritta, e mette a dura prova il compito degli esperti che rendono chiara la comunicazione. A che cosa è dovuto questo fenomeno?
Italiano: qual è il suo stato di salute?
È ormai una realtà che non può essere ignorata, chi conosce la lingua inglese può accedere alla maggior parte delle informazioni che esistono in rete. Anche i contenuti fruibili nei motori di ricerca italiani sono sempre più infarciti di anglicismi, cioè di termini mutuati dall’inglese britannico e americano.
L’altro giorno, leggendo un articolo sui meccanismi di funzionamento della controversa moneta digitale bitcoin, ho notato la presenza di una grande quantità di tecnicismi angloamericani, ad esempio, mining, token, NFT, cryptojacking, open-source, peer-to-peer, blockchain, wallet. Comprendere il mondo arcano delle criptovalute senza armarsi di pazienza e sfogliare un dizionario, può trasformarsi in un’esperienza frustrante per chi non ha dimestichezza con l’inglese.
Anche gli youtuber dei video tutorial (o “video esplicativi”, volendo usare il meno efficace corrispettivo italiano) attingono generosamente dall’inglese per aiutare gli utenti a impratichirsi con una determinata attività, o per insegnare a utilizzare una data piattaforma. Mi è capitato di recente di ascoltare una giovane blogger adoperare un mix di sostantivi italiani e inglesismi per spiegare i tool più adatti a realizzare un planning quando si fa content marketing nell’ambito della propria strategia di blogging, e gli step per promuovere il personal brand mirato alla propria target audience. Mentre visionavo il video, mi sono chiesta che cosa fosse successo all’italiano, e soprattutto quando e perché abbiamo cominciato a perderlo per strada, pezzo dopo pezzo.
La resistenza dei traduttori
Mi sono confrontata con la questione degli anglicismi fin dai miei esordi professionali come interprete e traduttrice negli anni Novanta. Allora stava già emergendo la tendenza a preferire l’uso di parole inglesi negli ordinativi esteri, nella manualistica e nel materiale promozionale aziendale. C’erano ragioni pratiche (scongiurare onerosi fraintendimenti sulle caratteristiche della merce da approvvigionare) e anche di prestigio (si era intuita la facoltà della lingua inglese di conferire un accento qualitativo ai prodotti pubblicizzati nelle brochure di presentazione).
Fedeli al nostro compito, quello di realizzare la trasparenza comunicativa, noi traduttori ci ostinavamo a proporre i termini italiani, coniando dei corrispettivi, o scegliendo con cura i traducenti più corretti. Internet non era ancora disponibile per il grande pubblico e l’attività di ricerca e definizione di un termine si presentava piuttosto impegnativa, sia in termini di tempo che di fatica mentale: scartabellavamo tra i dizionari specialistici e le riviste di settore, ricorrevamo alle cosiddette “lingue ponte”, consultavamo i tecnici delle aziende per forgiare un termine più aderente possibile.
Questa attività laboriosa veniva svolta in entrambe le direzioni, sia per le traduzioni dall’italiano alla lingua straniera che viceversa, e culminava nella composizione di glossari tecnici da mantenere sempre aggiornati e conservare gelosamente in quanto prezioso capitale del traduttore.
L’avanzata dell’inglese e l’impoverimento lessicale dell’italiano
Eravamo ignari di combattere contro forze superiori che stavano agendo in sordina e in combinazione: il progressivo insediamento dell’inglese e l’impoverimento lessicale e grammaticale dell’italiano. A trent’anni di distanza si può ben affermare che l’inglese ha avuto un notevole successo nell’erosione della nostra lingua.
Mentre curo la traduzione o la revisione di un testo, a volte ho la tentazione di lasciare invariati quei termini inglesi entrati nell’uso corrente e quindi comprensibili alla maggioranza. Lo farei più per rassegnazione che per reale convinzione. Dico a me stessa che dovrei sforzarmi di accettare l’evidenza, e cioè che i corrispettivi italiani sono meno fascinosi e possono far apparire vecchi e stantii i contenuti. Ritengo però che la scelta vada ponderata, occorre tener conto del registro del testo (formale o colloquiale), valutare settore di pertinenza e destinazione d’uso. È tuttavia assodato che l’inglese ha invaso molti ambiti della nostra vita quotidiana, a tutti i livelli. E che dire poi della bizzarria degli pseudoanglicismi, parole inventate in apparenza inglesi, ma che necessitano di una ritraduzione se a fruire del testo è un pubblico straniero.
Lingua italiana: musica per le orecchie
Personalmente, l’intreccio tra italiano e inglese mi suscita più di una perplessità. In generale, propendo per la resa italiana mediante la ricerca dei traducenti e l’adattamento, come avviene in Francia e in Spagna. D’altra parte, però, esistono termini stranieri intraducibili e parole inglesi “molto comode” in grado di condensare un’idea o un concetto concepito altrove che richiederebbe lunghi giri di parole per essere spiegato, in quanto inesistente nella cultura italiana.
Va tuttavia riconosciuto che l’italiano possiede ottime risorse per attuare le sostituzioni e ciò comporterebbe una serie di benefici, come il potenziamento del campo linguistico nostrano. Ne gioverebbero inoltre la comprensione e la musicalità degli enunciati. Infatti, anche l’espressione estetica della lingua è un aspetto che dovrebbe essere preservato. Abbinare parole appartenenti a lingue diverse con suoni e andamento differenti, può produrre un effetto sincopato. L’italiano mi è stato descritto da persone straniere come una lingua melodica, a volte lenta, ma piacevole all’udito. Noi italiani invece percepiamo l’inglese come una lingua veloce e ad alta efficienza. Ciò è dovuto alla prevalenza di parole costituite da una o due sillabe. Inserite qui e là nelle frasi italiane, queste paroline tendono a imprimere una brusca accelerata al messaggio, disturbando la musicalità intrinseca dell’italiano.
La festa della lingua madre
Le lingue sono organismi viventi che evolvono in modo naturale per effetto della combinazione di meccanismi propri e influssi esterni. Si tratta di un processo inevitabile e generalmente guardato con favore. Tuttavia, l’invadenza di alcune lingue divenute dominanti perché più prestigiose dal punto di vista socioculturale, ha indotto l’Unesco a adottare delle contromisure. Nel 1999, con l’istituzione della Giornata Internazionale della Lingua Madre, si è posto un freno a questo fenomeno nell’ottica di tutelare le diversità linguistiche, in particolare le lingue e i dialetti a rischio di estinzione. Non a caso, la ricorrenza cade il 21 febbraio, a ricordo dei martiri bengalesi, un gruppo di studenti dell’Università di Dacca uccisi settant’anni fa dalla polizia pakistana mentre manifestavano per il riconoscimento della lingua bengali. Allora il Bangladesh formava il Pakistan Orientale e l’urdu era considerata la sola lingua ufficiale della nazione.
L’iniziativa dell’Unesco pone l’accento sull’importanza delle lingue non solo come vettori della comunicazione, ma anche come contenitori di patrimoni identitari inestimabili. La pluralità di idiomi incarna e narra le storie e le culture dei popoli, restituisce le loro memorie, rispecchia forme e profondità diverse di pensiero e differenti visioni della vita.
Oggi, la galassia linguistica comprende 141 lingue ufficiali. Contando i numerosi dialetti e le varianti locali esistenti, arriva a espandersi fino a 6700 idiomi, un patrimonio culturale enorme che vale la pena di preservare.
Italia culla della cultura e delle invenzioni
È sorprendente che l’ultimo aggiornamento dell’Oxford English Dictionary assegni all’inglese più di 615.000 parole, il doppio dell’italiano secondo il Grande dizionario italiano dell’uso di Tullio De Mauro. Eppure, l’italiano moderno è l’espressione dei contributi lasciati dai mosaici di civiltà che hanno abitato la penisola nel corso della sua storia. Inoltre, è da sempre nel novero delle grandi lingue di cultura, in particolare come lingua per eccellenza delle arti figurative, della musica, della letteratura, della scienza e della filosofia.
Non per niente, a partire dal XVII secolo, l’Italia era la meta più popolare del Grand Tour, il viaggio che personaggi illustri e soprattutto i giovani rampolli dell’alta aristocrazia europea compivano al termine degli studi universitari per arricchire la loro formazione culturale. Questi turisti privilegiati visitavano le collezioni d’arte rinascimentale e le rovine della classicità greco-romana e non di rado coronavano l’esperienza formativa tornando in patria con un ritratto personale o un quadro che illustrava una veduta italiana, eseguito dalle più rinomate botteghe di pittura.
L’Italia ha anche donato al mondo invenzioni straordinarie, primeggiando nel connubio tra tecnologie e design, ha rivoluzionato settori come la moda, il cinema e la gastronomia grazie alla creatività e all’ingegno di stilisti e imprenditori. Tutto ciò ha avuto riflessi importanti sulle altre lingue che si sono arricchite di concetti e vocaboli. La tendenza però sembra essersi invertita: adesso sono la cultura e la lingua italiana a rischio di essere surclassate.
Una questione di trasparenza
È curioso che l’ingerenza dell’inglese riguardi soprattutto i sostantivi. La comunicazione odierna, scritta e parlata, attinge infatti da un nutrito corredo di vocaboli e acronimi angloamericani. Una contaminazione che appare inarrestabile. Di questo passo, se non verrà posto un freno, ci ritroveremo nell’arco di un paio di decenni a parlare e scrivere un nuovo idioma costituito da una mescolanza di vocaboli e costrutti italiani e inglesi, o addirittura da una prevalenza di questi ultimi.
A farne le spese sono la chiarezza e la comprensibilità dell’italiano, soprattutto nella sfera della comunicazione pubblica. L’accesso alle informazioni potrebbe diventare sempre più problematico per chi non è in grado di comprendere frasi costellate di anglicismi. Queste persone, che già avvertono un senso di straniamento, rischiano di ritrovarsi del tutto isolate dal mondo.
Conforta che a risentirne sarà una parte sempre minore della popolazione, in quanto le giovani generazioni vengono cresciute a pane e inglese tecnologico. Proprio la tecnologia importata dall’estero ha giocato un ruolo decisivo nell’adozione degli inglesismi, ma le motivazioni di questo processo sono più complesse, dipendono dalla convergenza di fattori storici, sociologici e psicologici verificatisi negli ultimi settant’anni di storia.
Le ragioni storiche della pervasività degli anglicismi
L’assimilazione della terminologia inglese si spiega in larga parte con la diffusione accelerata delle tecnologie digitali, dei canali TV satellitari e di internet, ma le sue radici sono più profonde, risalgono alla situazione della penisola nel Dopoguerra. Il potenziamento dell’insegnamento dell’inglese nelle scuole, l’aumento degli scambi culturali, l’incremento del turismo e delle relazioni commerciali ed economiche e soprattutto la globalizzazione rappresentano altrettanti fattori decisivi.
Il fascismo e la purezza della lingua italiana
Per diversi secoli, la lingua italiana è rimasta pressoché intonsa, il suo utilizzo era limitato alla tradizione letteraria. Parlato da una minoranza colta, il resto della popolazione in prevalenza analfabeta si esprimeva attraverso la molteplicità di lingue regionali e dialetti locali. L’esito della Seconda Guerra Mondiale vide come potenza vincitrice gli Stati Uniti, acclamati come liberatori dall’oppressione del fascismo, che pretendeva di controllare anche la lingua e proibiva qualsiasi contaminazione straniera. La politica fascista bandiva infatti l’uso di forestierismi, anche i più diffusi nel parlato come bar, club, humour, pamphlet, sport, show, film, star. Gli anglicismi venivano assorbiti attraverso traduzioni, invenzione di espressioni corrispondenti e italianizzazione della pronuncia (shampoo, overdose, watt).
L’inglese simbolo di un nuovo stile di vita
Al termine della guerra, il modo di vivere americano che incarnava libertà e benessere, scivolò nella vita degli italiani insieme al lessico angloamericano. I messaggi dei mezzi di comunicazione e delle imprese pubblicitarie iniziarono a sfruttare la concisione e l’originalità dell’inglese. I prodotti e le tecnologie sviluppate oltreoceano dalla fiorente industria postbellica suscitavano grande desiderio: davano una garanzia illusoria di qualità e trasmettevano l’idea di appartenere a uno status sociale abbiente. Dagli Stati Uniti, dove si concentravano inventiva, ricerca e sviluppo, e capacità manifatturiera, arrivarono nuovi termini come ferry-boat, yacht, cruise, car racing, tunnel, freezer, mixer, grill, boiler, barbecue, drive in.
La contaminazione graduale dell’italiano
A quell’epoca, la lingua italiana aveva già accolto una sequela di parole straniere, come haute couture, maison, prêt-à-porter, démodé, e avantgarde dalla moda francese; goal, dribbling, derby, pressing, assist, performance, outsider, score, match, ring, knock out dal calcio inglese e dal pugilato americano; Weltanschauung, Zeitgeist, Gestalt dalla filosofia e psicoanalisi tedesca, e Blitzkrieg, Diktat, Führer in riferimento alle vicende storiche della Germania. Dai film western e dalla gastronomia spagnola arrivarono espressioni come hasta la vista, mañana, amigo, gringo, rodeo, poncho, sombrero, coyote, machete, gazpacho, paella, tacos, tapas, tortilla. Dal Giappone giunsero termini dal fascino esotico come judo, karate, arigatou, bonsai, katana, in seguito integrati da futon, tsunami, hikikomori, sushi per via dell’assimilazione di nuovi fenomeni e abitudini nipponiche.
Il francese era stato per secoli la lingua nobile, usata nella diplomazia e nella cultura europea; francese e spagnolo erano parlate in tutti i continenti in conseguenza dell’espansione coloniale; a parimerito con l’inglese, francese e tedesco erano destinate a diventare le lingue di lavoro dell’Unione Europea.
Il ruolo della musica e del mito di Hollywood
L’inglese aveva dei rivali europei di tutto rispetto, ma fu l’idioma che trovò maggior accoglimento in Italia. Si impose gradualmente, per poi decollare grazie alla musica e al mito di Hollywood (cult, recital, remake, location, starlet), alle bevande e ai cibi (cocktail, drink, break, appetizer, brandy, gin, whiskey, diet coke, sandwich, toast, hamburger, fast food, junk food). Divenne la prima lingua straniera studiata nelle scuole e acquisì un ruolo sempre più rilevante nel turismo (hotel, hall, transfer, hub, all-inclusive, check-in, resort, cottage, souvenir, visa).
Politica e mezzi d’informazione
In seguito, gli anglicismi fecero breccia nel gergo della politica e delle istituzioni (leader, meeting, premier, bipartisan, establishment, question time, authority, exit poll, task force). Furono particolarmente sfruttati in riferimento alle riforme per rimarcare il cambiamento o edulcorare l’introduzione di provvedimenti sgraditi (election day, question time, jobs act, spread, spending review, welfare, default, deregulation, fiscal drag, fiscal compact, cashback, stepchild adoption, price cap, mismatch, endorsement, impeachment, recovery fund, green economy).
I termini inglesi inondarono il linguaggio dei mezzi di informazione, che per ironia avevano avuto storicamente un ruolo rilevante nell’unificazione linguistica. L’intento era di rendere più immediata la comunicazione ai telespettatori (news, talk show, talent, reality, audience, showgirl, nomination, standing ovation, pay per view, zapping, streaming, on demand, binge watching).
Scienza, economia e informatica
Ricercatori e scienziati cominciarono a scrivere e pubblicare in inglese per rivolgersi al più ampio pubblico di lettori della comunità mondiale. Intanto l’italiano si faceva da parte, perdendo la capacità di parlare a chi non era un esperto di economia, finanza, medicina, tecnologia.
Mentre un tempo era compito degli scrittori formare la lingua, e prima ancora dei teatri e dei cantastorie, questo ruolo venne a poco a poco assunto da giornalisti, politici, informatici, economisti, scienziati. L’esigenza di comunicare le notizie in modo fluido e diretto diede l’avvio a una sorta di economia linguistica: il linguaggio della stampa e dei telegiornali trovò una gradita scorciatoia nella lingua inglese, più snella nel fraseggio e immediata nel convogliare i messaggi. Allo stesso tempo, la maggior apertura dell’Italia verso il mondo e l’assimilazione di abitudini straniere accentuavano la convergenza fra italiano e inglese.
Consumismo e lusso
Con l’aumento del benessere, si imposero termini legati al consumismo e al lusso (shopping, party, dandy, fashion, festival, designer, make-up, dress code, bar code), alla medicina (check-up, screening, pacemaker, bypass, stent), alla psicologia e alla sociologia (bias, coping, love bombing, gaslighting, brain washing, catcalling). Espressioni della finanza e dell’economia entrarono nell’uso corrente: share, bond, brand, trust, cash, rating. Il gergo aziendale si dimostrò particolarmente ricettivo, facendo un uso spropositato di termini come manager, export, marketing, boom, trademark, budget, report, public relations, credit card, copyright, check list.
Molto abusati oggi sono: founder, player, competitor, convention, commodity, brand, packaging, partnership, team, badge, buyer, briefing, vision, skill, call, deadline, core business, mission, meeting, merchandising, stakeholder, decision maker, compliance, competitor, expertise, outsourcing, concept, background, recruiting, random, showroom, customer care, help center.
Internet e social network
L’adozione di tecnicismi e neologismi inglesi è letteralmente esplosa con l’omologazione tecnologica e informatica, e soprattutto con la diffusione di internet e la nascita dei social network: monitor, file, mouse, cloud, world wide web, net, account, desktop, password, provider, e-mail, hacker, spam, font, USB, pen drive, download, browser, editor, wireless, device, mobile, default, nickname, firewall, home page, webcam, release, soft skills, hard skills, tag, nerd, geek, challenge.
I ritmi della comunicazione hanno beneficiato di uno slancio ulteriore con l’adozione di sigle e acronimi tipici dell’inglese: VIP, HD, DIY, NEET, ASAP, CEO, FAQ, LOL, SEO, W/O, P2P.
Che cosa rende l’inglese così appetibile?
Oltre a possedere una connotazione vincente e prestigiosa, gli inglesismi appaiono più evocativi grazie alla capacità di sintetizzare i concetti, e risultano facilmente memorizzabili per via della loro brevità. Ecco una serie di esempi significativi: authority, crowdfunding, gender, coming out, body shaming, disclosure, eco-friendly, feedback, know-how, low cost, fitness, mainstream, mission, mug, privacy, escalation, problem solving, random, lockdown, serial killer, stalker, start up, storytelling, workshop, tutor, mindset, mainstream, workshop, summer school, open day, outfit, crime, romance, runner, overview, cosplayer.
Inoltre, l’inglese è in grado di esprimere un’idea articolata e di comprimere una grande quantità d’informazione semantica, combinando due-tre parole essenziali: oil truck, doggy bag, care pack, round trip, care giver, mother-in-law. Al contrario, l’italiano impiega termini più complessi che attingono da una notevole quantità di riferimenti culturali, e tende a usare composizioni lessicali di maggior estensione.
L’inglese è anche “cool”
Nel linguaggio scherzoso giovanile il termine cool è di comprensione immediata e imprime un certo effetto alla frase. Nell’uso sta quasi battendo l’espressione italiana gergale e disinvolta “figo”.
La tendenza a imbastire il discorso con prestiti e calchi dall’inglese non dipende soltanto dal loro fascino intrinseco, ma anche dall’esterofilia, cioè la caratteristica tutta italiana di compensare un ingiustificato complesso di inferiorità con la sottomissione a culture ritenute moralmente superiori. L’inglese ha il potere di aggiungere valore a concetti e parole, trasmette la sensazione di essere alla moda, professionali e inseriti nella modernità, e solletica velleità snobistiche.
Pseudoanglicismi
Ciò spiega anche gli pseudoanglicismi, cioè l’invenzione di parole e costruzioni sintattiche dall’aspetto inglese, ma in realtà inesistenti nei paesi anglofoni dove si utilizzano termini differenti per descriverle. Ecco una campionatura emblematica:
autogrill (motorway service area), autostop (hitchhiking), bloc-notes (notebook), box (garage | shower cubicle), beauty farm (spa), clacson (car horn), cotton fioc (cotton swab), flipper (pinball), inox (stainless steel), jolly (joker), luna park (amusement park), mister (coach), recordman (record holder), rider (delivery guy), smart working (remote work), pullman (coach), smoking (dinner jacket | tuxedo), testimonial (celebrity spokesperson), writer (graffiti artist). A questi termini vanno aggiunti i recenti no vax (antivaxxer) e green pass (EU covid certificate/passport).
Qui di seguito altri esempi di economia linguistica portata all’estremo, usando soltanto la porzione aggettivata e di fatto abbreviando l’inglese: basket (basketball), volley (volleyball), bomber (bomber jacket), cargo (cargo ship | cargo aircraft), chat (chat room), cordless (cordless telephone), discount (discount store), reality (reality show), talent (talent show), trench (trench coat), tutorial (video tutorial).
Ibridazione
Un altro segno di esterofilia è l’ibridazione, tipica di alcuni settori come l’informatica, lo sport e il gergo aziendale: invece di sfruttare le alternative italiane, si prediligono incroci forzati fra le due lingue, ai quali si attribuisce valenza di tecnicismo: bypassare (da to bypass), chattare (da to chat), splittare (da to split), swichare (da to switch), bootare (da to boot), implementare (da to implement), killare (da to kill), brieffare (da to brief), downlodare (da to download), brandizzare (da to brand).
Le ultime criptiche acquisizioni
Con la globalizzazione è sorta l’esigenza di trasmettere simultaneamente le informazioni ovunque e con grande rapidità. Soprattutto nel linguaggio giornalistico è diventato essenziale comunicare al pubblico in modo istantaneo. Questa fretta ha messo in secondo piano il contributo degli intermediari linguistici e dei traduttori professionali nella ricerca di espressioni equivalenti.
Nuovi fenomeni importati dall’estero hanno introdotto tecnicismi che descrivono concetti complessi. Si tratta di espressioni molto diffuse nei media, ma sulle quali regna ancora confusione. Ecco alcuni esempi corredati di significato e spiegazione dell’origine:
- Fake news è entrato nell’uso comune verso la fine del XIX secolo, significa “notizie false”, spesso a carattere sensazionale, create e divulgate allo scopo di arricchimento, oppure per promuovere o gettare discredito su un personaggio pubblico.
- Fact checking significa “verifica dei fatti”. È una procedura nata a seguito del dilagare di notizie e video inattendibili, se non addirittura inventati. I fact checker sono giornalisti e professionisti che verificano l’autenticità e l’autorevolezza delle fonti, e la fondatezza dell’informazione prima della sua pubblicazione. Capita però che siano tacciati di scarsa obiettività, sospettati di conflitti di interessi e di aver manipolato ad arte le informazioni passate attraverso il loro vaglio.
- Debunking è comparso agli inizi del diciannovesimo secolo. Deriva dalla parola bunkum, “panzana”. Significa letteralmente “eliminare le fandonie dalle cose”, cioè dimostrare la mistificazione e ricercare la verità. Il debunker, “sbufalatore”, smonta le notizie false già in circolazione, soprattutto quelle ritenute antiscientifiche e tendenziose, verificando l’attendibilità delle fonti per mezzo di strumenti tecnologici. A volte, viene accusato di assumere toni aggressivi e censori e di adulterare la verità a vantaggio di partiti e di esponenti politici.
- Gatekeeping significa letteralmente “custodia del cancello” e si riferisce al meccanismo di lasciare filtrare o meno una particolare notizia attraverso un mezzo di informazione allo scopo di sostenere il sistema. Il gatekeeper, “guardiano”, occupa la posizione di esperto e può essere un politico, uno scienziato, uno scrittore. Distrae il cittadino dalla realtà politica ed economica e genera consensi intorno a figure o partiti politici per discriminare gli oppositori. I left gatekeeper, invece, hanno il compito di canalizzare il malcontento dei cittadini più sospettosi e di sviarli fingendo di avversare il sistema mentre in realtà fanno il suo gioco.
- Spin doctor, “esperto nel colpo a effetto”, è un consulente nel campo della comunicazione, incaricato di promuovere l’immagine pubblica di un politico o di un partito. Per ottenere il consenso elettorale si serve di strategie di marketing e tecniche di ingegneria sociale che condizionano le masse e sfruttano i media e il ciclo di informazioni.
- Think tank significa letteralmente “serbatoio di pensiero” o “pensatoio”, ma è meglio traducibile come “centro studi e di ricerca”. Durante la Seconda guerra mondiale, il termine designava le unità speciali statunitensi che analizzavano l’andamento bellico (tank significa sia “serbatoio” che “carro armato”). I think tank sono esperti e studiosi di politica estera del mondo istituzionale, universitario e imprenditoriale che mettono le loro idee a servizio dei decisori politici. A volte la loro integrità e indipendenza politica e finanziaria è condizionata dagli interessi dei committenti.
- False flag significa “operatività sotto falsa bandiera”. Il termine è stato impiegato per la prima volta nel XVI secolo per descrivere la pratica dei pirati di innalzare la bandiera di una nazione amica allo scopo di ingannare le navi mercantili e abbordarle con facilità. Si servono di questa tattica i governi e i servizi segreti per progettare e condurre azioni facendole apparire come eseguite da altre organizzazioni, nel corso di operazioni militari, attività di intelligence e spionaggio industriale e campagne politiche.
- Whistleblower, letteralmente “suonatore di fischietto”, per i detrattori ha l’accezione negativa di spione. La pratica di whistleblowing riguarda i dipendenti pubblici o privati che segnalano reati o irregolarità di cui sono venuti a conoscenza nell’ambito lavorativo (assenteismo, corruzione, appalti illegali e violazione delle leggi). Il whistleblowing è incoraggiato e tutelato dalla legge rispetto a eventuali ritorsioni.
- Doxing deriva da docs o dox (documenti in Microsoft Word circolanti in rete). È un neologismo nato agli inizi del Duemila in relazione alla diffusione di informazioni sensibili nelle faide tra hacker rivali. La pratica del doxing, o doxxing, è andata ampliandosi ed è diventata una forma di persecuzione online per rovinare la reputazione delle vittime. Il doxing tuttora non è considerato illegale, in quanto le informazioni reperibili in rete sono di dominio pubblico.
- Shadow banning, letteralmente “interdizione ombra”, definisce la pratica di gestori o moderatori di servizi on line, piattaforme digitali e social media, di bloccare o restringere la visibilità del profilo di un utente, dei contenuti e commenti postati, in modo che siano inaccessibili agli iscritti e agli utenti che accedono al canale. Si tratta di una forma subdola di censura, attuata senza che il destinatario del provvedimento se ne accorga nell’immediato. Mira a frustrare l’utente sgradito in modo che abbandoni la piattaforma o il gruppo.
Un raggio di speranza per la lingua italiana
Come ha sottolineato l’iniziativa dell’Unesco, preservare le lingue madri è fondamentale. La cura della lingua è amore per le proprie radici storiche e consapevolezza della cultura di appartenenza.
Il monolinguismo compromette la consistenza e la pluralità dei patrimoni culturali, mentre la differenziazione linguistica tende alla loro conservazione e all’accrescimento.
La lingua italiana, ricchissima di vocaboli, combinazioni lessicali, sfumature semantiche, figure retoriche ed espressioni idiomatiche legate a vicende storiche e tradizioni peculiari, sembra tendere verso la rinuncia a descrivere concetti moderni e tecnologici. Si tratta di un fenomeno preoccupante. Regressione lessicale e tolleranza verso le contaminazioni straniere inducono gravi perdite anche dal punto di vista intellettuale. Il pensiero è possibile grazie all’esistenza delle parole. La capacità di pensare e ideare nella propria lingua plasma la specificità e l’unicità dei popoli.
Come traduttore e revisore di testi che ha il privilegio di lavorare con le lingue e di poterne apprezzare le sorprendenti sfumature e punti di vista, trovo difficile assistere al progressivo disfacimento dell’italiano. Sono tuttavia convinta che invertire la tendenza dell’inglese a fagocitare la nostra lingua non sia un’operazione complicata. In fondo, siamo riusciti a scalzare il famigerato “after-shave” diffuso nelle pubblicità degli anni Settanta, sostituendolo con “dopobarba”, e ad arginare l’uso di “party” e “attachment”, preferendo “festa” e “allegato”.
Ricominciare ad attingere dal cospicuo patrimonio linguistico italiano è possibile, dobbiamo soltanto volerlo.