Scrittura inclusiva fra simboli e soluzioni grafiche
Vi sarà forse capitato di notare nei testi di e-mail, newsletter o post social alcune parole scritte con un simbolo al posto della lettera finale: mi riferisco, per esempio, a formule di saluto come “Car@ amic@” o “Benvenut* a tutt*”, in cui la chiocciola e l’asterisco sostituiscono l’ultima vocale, con la funzione di rivolgersi a una pluralità di interlocutori di genere diverso con un’unica espressione. Per intenderci, sostituiscono formulazioni come “Caro amico e cara amica”, “Benvenuti a tutti e benvenute a tutte”, che risulterebbero pesanti e ripetitive. Ma non basterebbe, mi direte, scrivere “Cari amici” e Benvenuti a tutti”? La risposta non è semplice: si entra qui nel grande dibattito sulla cosiddetta scrittura inclusiva.
Ma che cos’è la scrittura inclusiva?
Con scrittura inclusiva si fa riferimento a un modo di scrivere che rispetta la parità di genere, contrasta pregiudizi e stereotipi ed evita espressioni e parole che potrebbero escludere determinati gruppi di persone: si tratta, insomma, di adottare nella nostra comunicazione scritta (ma gli stessi principi si applicano anche a quella orale) una serie di accorgimenti volti a evitare forme di discriminazione, in particolare quelle legate al genere. A livello internazionale sono sempre più numerose le sollecitazioni in questo senso, soprattutto in ambito amministrativo e istituzionale: basti pensare alle direttive ONU per un linguaggio inclusivo redatte in ognuna delle sei lingue ufficiali (arabo, cinese, francese, inglese, russo e spagnolo). Quella della scrittura e, più in generale, del linguaggio inclusivo, è dunque una questione che riguarda tutte le lingue, ma che in alcuni Paesi come in Italia è particolarmente ostica, anche a causa di alcune specificità linguistiche.
Il genere femminile delle professioni
Il primo aspetto su cui si concentra il dibattito sul genere nell’italiano, per la prima volta sollevato da Alma Sabatini nel saggio Il sessismo nella lingua italiana del 1987, riguarda i nomi professionali declinati al femminile: è corretto chiamare “sindaco” “rettore” e “ingegnere” una donna, o dovremmo piuttosto dire “sindaca”, “rettrice”, “ingegnera”, esattamente come diciamo “maestra”, “nuotatrice” e “infermiera”?
Il parere della Crusca
Rispetto a questo tema, in un articolo del 2013 l’Accademia della Crusca si è pronunciata apertamente per la seconda opzione, spiegando che non c’è nessun motivo linguistico per non adottare le forme femminili di tali mestieri e che le resistenze sono piuttosto di ordine culturale: derivano cioè dall’abitudine (in passato certe professioni erano appannaggio solo degli uomini) e da un certo stereotipo secondo cui il ruolo femminile è percepito come meno importante di quello maschile. In un’ottica inclusiva, dunque, via libera per tutte le cariche e le professioni al genere femminile, declinato in base alle opportune regole grammaticali.
Il maschile sovraesteso
Il secondo fenomeno contestato è il cosiddetto maschile sovraesteso, che consiste nel prevalere del genere maschile sul femminile sia al singolare (quando si parla di una persona di genere ignoto, come nella frase “Se viene qualcuno, portalo da me”) sia al plurale (quando ci si riferisce a un gruppo misto, per esempio se diciamo “Stasera vengono degli amici a cena” e intendiamo che verranno amici e amiche). Le linee guida della scrittura inclusiva suggeriscono, in questi casi, di dare visibilità a entrambi i generi, come nell’espressione “Buonasera signori e signore”, oppure di adottare scelte linguistiche che permettano di non specificare il genere, ad esempio usando nomi collettivi (“il corpo insegnante” invece che “gli insegnanti”) o ambigeneri (“persona”).
Un sondaggio francese
Sebbene, infatti, l’uso del maschile sovraesteso – che si trova anche in altre lingue, come il francese – possa sembrare un aspetto di pura natura grammaticale, alcune ricerche ne mostrano l’influenza in termini di rappresentazione mentale. Per esempio, proprio in Francia l’associazione Mots-Clés ha condotto nel 2017 un sondaggio interessante su un campione di mille persone (rappresentativo della popolazione adulta francese): a tre diversi gruppi è stato chiesto di citare rispettivamente “due scrittori celebri”, “due scrittori o scrittrici celebri” o “due persone celebri per i loro scritti”. Nella seconda e terza formulazione, rispetto alla prima che usa la regola del maschile sovraesteso, il numero medio di donne citate è salito del 46%.
Scrittura inclusiva e identità di genere
Più di recente si è aggiunto un terzo elemento, legato alla cosiddetta identità di genere. In italiano, infatti, il genere grammaticale è di tipo binario, cioè maschile o femminile. Esistono, tuttavia, molte persone che non si identificano esclusivamente né nel genere maschile né in quello femminile, o che comprendono entrambi. Come rivolgersi, quindi, a chi si definisce non-binario? Se per alcune persone non-binarie, infatti, il ricorso al maschile o al femminile è indifferente, altre invece sentono l’esigenza di trovare un’espressione più rispettosa della loro identità. In alcune lingue si è già cercato di trovare nuove soluzioni: gli svedesi hanno introdotto nel proprio glossario ufficiale il pronome personale di genere indefinito hen, mentre gli inglesi propendono per estendere l’uso del pronome di terza persona plurale they anche al genere indefinito singolare.
Le proposte per l’italiano: il caso dello Schwa
In italiano il dibattito rispetto a questi argomenti resta aperto. Esistono varie proposte per superare il maschile sovraesteso e il non-binarismo, tra cui appunto l’uso dell’asterisco o della chiocciola che abbiamo già citato. Questi simboli, però, hanno il limite di poter essere applicati solo alla scrittura. Sono nate quindi altre proposte, adatte anche al linguaggio parlato, tra cui l’uso dello Schwa “Ə”, simbolo dell’Alfabeto Fonetico Internazionale che corrisponde a un suono vocalico centrale non presente in italiano standard, ma usato in alcuni dialetti meridionali (/Nàpulə/).
Soluzione o provocazione?
L’idea, suggerita più che altro come provocazione dalla sociolinguista Vera Gheno nel saggio “Femminili singolari”, ha avuto un certo seguito: il comune di Castelfranco Emilia ha adottato lo schwa nella sua comunicazione social e la casa editrice Effequ lo ha introdotto nei suoi saggi (ma non nei libri di narrativa) per evitare il maschile sovraesteso e in riferimento a persone non binarie. Anche la pagina Italiano Inclusivo accoglie lo schwa per esprimere il singolare non connotato nel genere, proponendo per il plurale il simbolo fonetico “Ʒ ”, che indica un’altra vocale centrale leggermente più aperta.
Forzare una lingua è l’unica strada per l’inclusività?
Nonostante, come spiega la stessa Gheno, si tratti di una soluzione puramente sperimentale, le proteste rispetto all’uso dello schwa sono state accesissime e si sono estese più in generale al tema della scrittura e del linguaggio inclusivo, visti come imposizione ideologica caduta dall’alto per tenere conto delle esigenze di “pochi ma rumorosi esagitati”. Difficile, in effetti, non vedere i limiti e le difficoltà pratiche di una comunicazione che tenga conto di tutte le istanze, di tutte le unicità e che, in nome dell’inclusione, rischia di diventare pedante. Ma se è vero che non si può forzare una lingua in nome di una battaglia ideologica, forse adottare un modo di scrivere e parlare più attento e consapevole, capace di adattarsi al contesto di riferimento, può contribuire a promuovere una cultura più equa, che tiene conto dei cambiamenti della società e della complessità dell’essere umano.
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