Quanto serve scrivere?

Tutti concordi che sia una nobile attività da insegnare a bambini e ragazzi. Tutti d’accordo nel ritenere che sia una buona pratica anche per gli adulti.

Ma davvero, quando si stila l’elenco del bagaglio professionale di un individuo o il patrimonio fondante di una società, che posto occupa la scrittura?

Quanto guadagna uno scrittore?

Qui, in genere, i visi degli interlocutori cambiano e le opinioni si rettificano. Scrivere è un ottimo passatempo, una passione che ha a che fare con l’arte e il talento, ma da qui a sceglierla come professione ce ne corre. Sono altri i “lavori” che tengono in piedi l’economia nazionale e le finanze personali e quando un genitore fantastica sul futuro del figlio sono altre le professioni nelle quali spera di vederlo realizzato. Perché il binomio serve quindi rende, quando non addirittura il suo inverso vale a dire rende quindi serve, fa parte del modo di pensare comune; e a ben vedere ha anche una sua logica: quella dell’utile.

Eppure respiriamo parole, le usiamo, le leggiamo, le scriviamo. Siamo tutti pronti a giurare di contare tra le nostre letture almeno un libro che ci abbia cambiato la vita. Gli siamo virtualmente debitori. Di quanto, però, nessuno lo sa. Non si può attribuire un prezzo al conforto delle buone parole, perché è questo un genere di conforto che non ha prezzo.

Un prezzo invece ce l’hanno le parole inopportune, che insultano, offendono, vilipendono ed è opinione comune ritenere che chi le pronunci o le scriva quel prezzo debba pagarlo. Sono d’accordo anch’io. Si chiama responsabilità di ciò che si dice, consapevolezza che le parole hanno un peso, una ricaduta e tante conseguenze e che non possono essere usate con superficialità sull’onda dell’umore. C’è una bella differenza tra il sostenere le proprie opinioni argomentandole e lasciarsi andare a sfoghi verbali meschini che calpestano i sentimenti di coloro a cui sono destinati. Non è questa la libertà di parola e di stampa a cui dovremmo aspirare.

Ma torniamo al valore della scrittura. Quando se ne parla sembra che del doppio significato che il termine “valore” possiede – morale ed economico – alla scrittura spetti solo il primo.

Non se la passano meglio la musica e l’arte.

Anche loro non rientrano tra le professioni che un genitore, in cuor suo, si sentirebbe di augurare al figlio: troppo aleatorie, rischiose, poco remunerative tranne che per pochi, eccezionali talenti. Siamo la società dei consumi che misura l’importanza di ciò che fa in funzione dell’immediata commercializzazione che ne può derivare. I processi lunghi capaci magari di agire sulle coscienze, aprire gli occhi, rigenerare i pensieri e far prendere decisioni consapevoli non rientrano nella categoria di ciò che vale.

Per fortuna la storia ha sempre potuto contare su alcuni folli che si sono ostinati a pensarla diversamente e che, a costo di morire spiantati, hanno creduto e cercato di trasmettere la valenza dell’arte in tutte le sue forme.

È un genere di anticonformismo che spesso non viene neppure colto dai contemporanei, ma che a distanza di tempo balza all’occhio di chi può guardare al passato cogliendone novità, connessioni e conseguenze. Le idee viaggiano e generano altre idee, a volte agiscono sottotraccia, influenzando le menti attraverso i cuori. E sappiamo bene quanto fertile sia l’insegnamento che non viene impartito dall’alto, ma che infervora e fa vibrare le corde più intime del sentimento.

Ho ritrovato questo spirito nell’ultimo libro di Giovanni Bietti, intitolato Lo spartito del mondo, un invito a guardare alla storia della musica degli ultimi cinquecento anni come ad una forma d’arte che attraverso sonorità e strumenti diversi ha agevolato l’incontro e il dialogo tra i popoli, celebrando il valore della fratellanza e dello scambio culturale. Una finalità perseguita con deliberata convinzione da molti grandi nomi della musica, da Orlando di Lasso a Johann Sebastian Bach, da Beethoven a Debussy, da Béla Bartók a Duke Ellington, fino ad arrivare a oggi con l’impegno di Peter Gabriel e della world music.

Ma è il concetto che ho trovato espresso alla fine del libro che è riuscito a sintetizzare con efficacia il valore dell’arte, qui intesa come musica, ma che ritengo sia attribuibile in ugual modo a qualsiasi altra sua espressione compresa la scrittura. Si legge testualmente a pag. 150: […] Perché una società deve interrogarsi, riconoscersi, aspirare a migliorare, cercare più armonia e più senso. E questo è da sempre stato il ruolo – non il solo, ma uno dei più importanti – dell’arte.

 

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