Scrivere la fede
di Paola Gaiani
Amo le parole, soprattutto quelle scritte.
Mi piace scoprirne di nuove, conoscere la loro etimologia, mi emoziono quando leggo periodi costruiti così bene da farmi sentire tutta la tensione e le aspettative dell’autore che li ha elaborati.
Penso che le parole siano una forma di comunicazione sublime, di certo quella a me più cara e quando scrivo non mi sfiora mai il sospetto che dedicare tempo alla scelta accurata dei vocaboli, della punteggiatura, del ritmo e della musicalità di ciascuna frase sia una perdita di tempo.
Non c’è esperienza, concetto o piega dell’anima che non possa essere tradotto in parole.
Se puoi pensarlo puoi scriverlo.
La difficoltà nasce quando si sceglie di raccontare gli angoli più intimi delle proprie stanze, quelle in cui siamo abituati ad entrare solo noi e dove spesso vediamo cose che facciamo fatica a comunicare per il timore di sciuparle, dicendole.
La fede, il personale rapporto con Dio, il significato del tempo che passa, la vita, la morte quando non sono soltanto speculazioni filosofiche, ma domande urgenti e soggettive, rientrano nella sfera dell’intimità.
Scriverne per indagarle non può fare che bene, raccontarle perché anche altri le conoscano è invece più complicato.
Si corre il rischio di banalizzarle e di usare le espressioni più consone e collaudate per quel genere di cose. Ciò che si vuole comunicare diventa così ingombrante da rendere meno importante la forma nella quale si tenta di farlo.
Nell’immaginario collettivo ci siamo fatti tutti un’idea di quale sia il modo di pensare e di esprimersi di un credente. Quando ci accorgiamo di averne uno davanti, spesso smettiamo di prestare attenzione a quello che dice ritenendo sia un prodotto della sua dottrina e non una sua autentica convinzione.
Se qualcuno affermasse che nella ricerca di Dio sente di realizzarsi pienamente come persona già qui e fin da adesso, forse annuiremmo condiscendenti, convinti che a parlare, più che lui, sia la sua religiosità. Ma se qualcun altro, di cui non conosciamo la fede né la dimensione spirituale, ci spronasse a lavorare sulla nostra consapevolezza, ad amare chi ci sta vicino e ciò che facciamo, ad aspirare alla felicità intesa come pieno compimento delle nostre facoltà in armonia con l’universo, forse proveremmo una suggestione diversa.
Ignorare ciò in cui crede chi ci sta parlando agevola la nostra incondizionata predisposizione ad ascoltarlo. Così come il contrario.
La mia fiducia nelle parole e la stima nei confronti di chi ama leggere mi fanno credere però che si possa comunicare la fede usando registri linguistici diversi, mutuati dal mondo letterario.
La spiritualità che si fa racconto.
Potrebbe funzionare purché, da parte dell’autore, non ci siano finalità dottrinarie, ma solo il piacere di narrare qualcosa che gli appartiene e da parte del lettore la voglia di accostarsi al testo con sincera curiosità.