La bellezza sedimenta e poi riaffiora quando vuole lei.
Ne ho avuto prova di recente nel momento in cui nitido, alla memoria, si è affacciato il ricordo della mostra su Antonello da Messina (1430 ca. – 1479) passata al Palazzo Reale di Milano tra febbraio e giugno scorsi.
Proprio una settimana prima che la mostra lasciasse la città, mi è capitato di accompagnare mia figlia nel capoluogo lombardo per un suo esame di certificazione linguistica.
A lei l’esame, a me ore libere a Milano: come dire? Vera manna dal cielo. Sì, perché la città meneghina può strozzare o estasiare a seconda che ci si rechi per lavoro o per piacere. E a me quel giorno era toccato il secondo.
L’avevo adocchiata da casa e mi ero organizzata. All’orario di apertura della mostra mi trovavo già in piazza Duomo eppure la fila di persone all’ingresso era già importante. Mi accodai paziente.
Quando ebbi accesso alle sale ero emozionata perché ero lì, perché ero sola e perché erano anni che non mi capitava di poter riempire il mio tempo di puro appagamento per gli occhi, senza altre ragioni se non quella di goderne.
M’incantai di fronte ai dettagli del San Girolamo nello studio, sostai a lungo davanti al Ritratto d’uomo, detto anche Trivulzio, con le sue sopracciglia cespugliose e l’espressione sprezzante, mi lasciai sedurre dal Ritratto di giovane vestito di scuro su campo nero che, invece di confondersi con lo sfondo, balzava fuori in tutta la sua corporeità, mi commossi guardando negli occhi l’Ecce Homo in lacrime e mi arrestai sgomenta dinanzi allo sguardo distolto e al gesto perentorio della mano dell’Annunciata che percepivo come rivolto direttamente a me.
Ma la mostra presentava anche un’altra sorpresa, che è poi quella che ha lavorato latente nei meandri della mia memoria per riaffacciarsi a distanza di mesi attestandomi di non essere mai andata via: oltre ai dipinti di Antonello da Messina le sale conservavano anche i taccuini da viaggio di Giovanni Battista Cavalcaselle (1819-1897), storico dell’arte e gran viaggiatore, al cui lavoro meticoloso di analisi, studio e comparazione è dovuta una straordinaria catalogazione di antiche opere e artisti italiani. Nel caso particolare di Antonello da Messina, si deve a lui più di una corretta attribuzione. Su tutti spicca l’esempio del San Girolamo nello studio che in passato si pensava appartenesse alla scuola fiamminga, forse a Jan Van Eyke, ma che il Cavalcaselle dimostrò invece possedere i tratti caratteristici del pittore siciliano.
Quei taccuini aperti sotto le teche di conservazione, fitti dei disegni delle opere che il suo autore copiava diligente dal vero, per poi corredare di commenti e appunti minuziosi, mi hanno stregato. Mi trovavo di fronte al lavoro di un uomo che ha speso la vita per restituire alla storia le opere e la memoria di artisti che per equivoci o negligenza rischiavano di essere dimenticati, fraintesi.
L’amore per l’arte non motiva da solo un impegno del genere, ci dev’essere dell’altro. Non può esserci Storia senza rispetto per il passato, consapevolezza di essere eredi dei suoi protagonisti, custodi della loro memoria.
Stamattina sono qui a ragionare sull’idea di un romanzo che sto scrivendo, con il proposito di mettere a fuoco il suo significato essenziale, il suo tratto distintivo e mi viene in mente il Cavalcaselle. Scopro che il desiderio di strappare qualcuno all’oblio per restituirlo al ricordo, inventare un intreccio in cui possa prendere vita e fare in modo che altri si interessino a lui sono tra le ragioni più impellenti che mi spronano a scrivere questa e non un’altra storia.
Ho le idee più chiare, adesso, e uno stimolo in più per concludere ciò che ho iniziato.