Ci sono incontri che cambiano il destino delle persone. Alcuni hanno cambiato addirittura la storia della letteratura. È questo il caso di Sylvia Beach e James Joyce.
Siamo nella Parigi degli anni ’20, quella de “Les Annés Folles”, gli anni ruggenti. Qui si ambienta il libro Shakespeare and Company di Sylvia Beach che è una sorta di autobiografia, diario, raccolta di memorie di un periodo unico e irripetibile. Nella prefazione di Livia Manera, si legge:
“Quella di Shakespeare and Company raccontata da Sylvia Beach è la storia di una meravigliosa avventura, quando in America c’era il proibizionismo, la vita a Parigi era facile, e stormi di americani, inglesi, e irlandesi di talento arrivavano come uccelli migratori per sistemarsi in qualche appartamentino senz’acqua calda e con il bagno sul pianerottolo nel Quartiere Latino. E invece di frequentare scuole di scrittura creativa come i loro epigoni odierni, imparavano il mestiere sul campo, scrivendo nei caffè perché a casa non c’era il riscaldamento, e prendendo in prestito da Shakespeare and Company i racconti di Checov e i romanzi di Turgeniev, per riportarli indietro dopo aver capito tutto quello che c’era da capire sull’arte di scrivere, e avere ribaltato quelle regole per inventarne di nuove.”
Il 19 novembre 1919 aprì i battenti la libreria più particolare della storia. Il sogno di Sylvia era creare una libreria francese a New York, ma il destino volle il contrario. La notizia si sparse in fretta tra i pellegrini americani, tutti gli scrittori che arrivavano in città, andavano da Sylvia, ne diventavano clienti e membri di una sorta di originale club. Ci passarono Ezra Pound e signora, che Sylvia descrive come un uomo di estrema modestia che non parlava mai dei suoi libri, né commentava quelli degli altri. Grande appassionato di falegnameria, si offrì di sistemare le sedie del locale.
Il miglior cliente, a detta di Sylvia, fu Ernest Hemingway. “Nonostante certi tratti infantili del suo carattere mi sembrò molto più maturo di tutti i giovani scrittori di mia conoscenza, straordinariamente guidizioso e sicuro di sé.” Si offrì di imbiancare la libreria, fare altri piccoli lavoretti, mentre il suo amico Joyce, leggeva sulla sua solita poltrona. Senza dimenticare che non si tirò indietro quando servì qualcuno che portasse di nascosto, per via della censura, una copia dell’Ulisse negli Stati Uniti, arrivandoci con il libro infilato sotto la camicia.
Francis Scott Fitzgerald, l’unico che poteva permettersi una vita agiata al contrario dei suoi colleghi, supplicò Sylvia di organizzare una cena con Joyce e le regalò una copia del Grande Gatsby con un disegno della tavolata in cui lui è inginocchiato davanti a un James con un’aureola intorno al capo.
Si tesserarono anche Gertrude Stein e la sua compagna Alice Toklas, ma non frequentarono così spesso. “Gertrude si era iscritta solo per fare un gesto di amicizia: i libri degli altri l’interessavano poco. In compenso scrisse una poesia sul mio negozio, e me la portò a leggere un giorno del 1920.”
Ritirò la sua tessera solo qualche anno dopo, perché non d’accordo con la sua pubblicazione dell’Ulisse.
E qui si apre la parte della storia più affascinante e misteriosa. Shakespeare and Company era sì una libreria in cui, ovvio, si vendevano libri, ma chi si tesserava, cioè la maggior parte degli scrittori stranieri, poteva prendere in prestito i volumi per studiarli. Si intuisce, quindi, che Sylvia lavorasse più per passione che per sete di profitti. La situazione peggiorò dopo neanche un anno dalla sua apertura, quando, nell’estate del 1920, conobbe appunto James Joyce. Con timida reverenza andò ad una festa in cui sapeva di poterlo incontrare. “Per Joyce nutrivo un’autentica venerazione, e alla notizia inaspettata che egli era in quella casa mi spaventai tanto che volevo scappar via, ma Spire mi disse che erano stati i Pound a portar lì Joyce e sentendomi un po’ rassicurata dalla presenza di gente che conoscevo mi decisi a varcare la soglia.”
Da quel momento inizia una storia nella storia, per molti aspetti inspiegabile, ma che cambiò le sorti della letteratura. Sylvia si prese carico di pubblicare l’Ulisse di Joyce. Forse per incoscienza, intraprese questa attività che non la portò alla bancarotta per miracolo. Pubblicare Joyce significò anche mantenerlo e non era cosa facile. Lui e la sua famiglia non erano abituati ad una vita modesta: andavano sempre a teatro e al ristorante, nonostante i debiti. Quello che guadagnava con le pubblicazioni di altri scritti, li spendeva in vizi. Ma da Sylvia non uscì mai un lamento, lei doveva pubblicare l’Ulisse.
Continuò nel suo intento nonostante le critiche di grandi nomi. Virginia Woolf scrisse nei suoi diari: “Ho terminato Ulisse e mi sembra un colpo mancato. Genio ne ha, direi, ma di marca inferiore. Il libro è diffuso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo non solo nel senso ovvio, ma nel senso letterario. Uno scrittore di classe, voglio dire, rispetta troppo la scrittura per ammettere le trovate, le sorprese, le bravure. Mi ricorda continuamente un collegiale pieno di spirito e d’ingegno, ma così conscio di sé, così egocentrico che perde la testa, diventa stravagante, manierato, chiassoso, smanioso, desta pietà nelle persone per bene e in quelle severe semplice noia. E si spera che gli anni lo guariscano, ma poiché Joyce ne ha quaranta sembra poco probabile.”
Quando la pubblicazione sembrò vicina, chiese delle prenotazioni a pagamento e George Bernard Shaw rispose “Se Lei crede che un irlandese – figuriamoci un irlandese di una certa età – sia disposto a sborsare 150 franchi per un libro come quello, vuol dire che non conosce bene i miei compatrioti.”
Il 2 febbraio 1922 Sylvia consegnò la sua prima copia a Joyce. La notizia si diffuse in fretta. Lei divenne la sua agente, la sua banca, la sua coordinatrice di traduzioni in altre lingue. Il tutto senza chiedere mai un soldo. Neppure quando Joyce riuscì a pubblicare negli Stati Uniti. Accettò di incassare dei diritti solo a patto che non intaccassero i suoi compensi. E poi Joyce se ne andò in America. Così. Senza quasi salutarla. Ma in tutto il libro non compare una parola di pentimento o di astio nei suoi confronti.
Sylvia, invece, continuerà a portare avanti la libreria anche con l’incalzare della Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione tedesca, le leggi razziali. Quando sarà obbligata a chiudere, nel 1941, passerà la notte a nascondere i libri, per non darli ai nazisti.
Non riaprì più, ma continuò a vivere nell’appartamento sopra, assieme alla compagna Adrienne Monnier, a scrivere i suoi ricordi. Restò nel cuore di molti, tanto che Hemingway andò a cercarla, dopo la Liberazione e potè riabbracciarla prima di tornare in patria.
Cent’anni dopo Shakespeare and Company esiste ancora. Non è più nello stesso stabile a Rue de l’Odeon, ma potete trovarla in Rue de la Bucherie. Riaprì nel 1951 grazie a George Whitman e oggi è gestita dalla figlia che, caso vuole, si chiama Sylvia Beach Whitman.
E la storia continua.
Fonti:
Shakespeare and Company di Sylvia Beach. Neri Pozza.
Autobiografia di Alice Toklas di Gertrude Stein. Parole d’Argento Edizioni.
Diari 1925-1930 di Virginia Woolf. BUR