Le piccole virtù di Natalia Ginzburg è una raccolta di undici scritti, a metà tra il saggio e il racconto, pubblicata per la prima volta nel 1962. È un libro piccolo, di poco più di centocinquanta pagine, uscito tra Le voci della sera e Lessico familiare, ritenuti dalla critica i due libri migliori della Ginzburg. Una collocazione che lo penalizza, perché per lungo tempo rimane nell’ombra, senza ricevere le attenzioni che merita.
Un libro coraggioso
È un libro coraggioso, a partire dal titolo: Le piccole virtù può in effetti essere frainteso e indurre il lettore a pensare che si tratti di scritti inerenti a oggetti, situazioni, sentimenti e valori di poca importanza. Invece, fin dal primo racconto, ci rendiamo conto di essere di fronte a concetti e idee di grande portata. Le piccole virtù di cui scrive la Ginzburg, sono in realtà quelle grandi che incontrano la dimensione della quotidianità. L’attenzione che dedica alle persone, agli oggetti, alle situazioni, alle relazioni che racconta, non sono altro che un mezzo per riflettere su concetti ampi, e vitali; ecco allora che, in questo senso, parlare della piccola virtù del risparmio, serve per insegnare quella grande dell’indifferenza nei confronti del denaro.
“Il mio mestiere”: scrivere storie
Tutti i testi di questa raccolta meriterebbero grande attenzione, ma mi piace l’idea di soffermarmi in particolare su uno di essi: è collocato nella seconda parte del volume che raccoglie scritti di taglio saggistico (la prima parte è dedicata alla memoria) e si intitola Il mio mestiere. È un saggio molto breve, otto paginette nell’edizione Einaudi tascabili, leggendo il quale si entra nel laboratorio di scrittura dell’autrice, esperienza che, da lettrice curiosa, mi affascina sempre molto.
«Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere. Quando mi metto a scrivere mi sento straordinariamente a mio agio e mi muovo in un elemento che mi par di conoscere straordinariamente bene: adopero degli strumenti che mi sono noti e familiari e li sento ben fermi nelle mie mani.»
L’incipit e il tono con cui Natalia ci parla del suo essere scrittrice è molto confidenziale, ma non per questo poco autorevole. È un tono deciso, di chi ha le idee chiare e sa da sempre il significato vero di una vocazione. La Ginzburg scrive fin da bambina e le sue prime esperienze sono poesie che compone in modo naturale, dice, e che raccoglie in un quaderno di bella, con una copertina accurata, nel quale non trascura di mettere l’indice dei componimenti e tutto ciò che occorre per farne un’opera vera e propria.
Sa però di non voler scrivere poesie per sempre, e sa che, presto o tardi, scriverà altro.
«Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo della mia vita ma comunque storie, cose dove non c’entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia.»
Di nuovo una consapevolezza chiara: non sarà mai scrittrice di saggi, ma sempre di opere letterarie, romanzi e racconti, di storie, come le definisce lei, usando una parola che trovo molto affascinante, perché fortemente evocativa.
Il personaggio è l’anima del racconto
«Siccome avevo scoperto che esistevano i personaggi, mi pareva che avere un personaggio bastasse a fare un racconto.»
È proprio per la costruzione dei personaggi che la scrittrice inizia a osservare e ad annotare in un taccuino che porta sempre con sé immagini, situazioni, particolari che le sembrano significativi e degni di entrare in un componimento letterario. Natalia Ginzburg non utilizzerà mai nessuna frase del suo taccuino, che ben presto definisce «un museo di frasi». Matura quindi una consapevolezza fondamentale, ovvero che nel mestiere della scrittura non esiste il risparmio, perché
«quando uno scrive un racconto, deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita.»
Scrivere è totalizzante
Il mestiere di scrivere non è uno scherzo. È totalizzante, a volte addirittura crudele e pericoloso, «non è mai una consolazione o uno svago. Non è una compagnia». Scrivere significa mettere se stessi senza riserve, senza filtri, con tutta la generosità di cui si dispone. Ogni testo è unico, ogni personaggio diverso, ogni stato d’animo condiziona il potere della storia e l’essenza dei personaggi.
«La nostra personale felicità o infelicità, la nostra condizione terrestre, ha una grande importanza nei confronti di quello che scriviamo.»
Anche se non sempre ne siamo consapevoli, non esiste una storia o un personaggio che non risenta del nostro modo di essere, delle nostre esperienze, dei nostri desideri. Noi stessi non siamo mai uguali nel tempo e ciò che viviamo adesso tocca leve emozionali che non sono ripetibili in altri momenti.
Ecco perché il mestiere dello scrittore è totalizzante. Ecco perché, secondo questa grande scrittrice,
«È un mestiere abbastanza difficile, lo vedete, ma il più bello che ci sia al mondo»
Scrittrice della verità
Di questo libro, nel quale la scrittrice si mette a nudo anche come donna, colpiscono molti aspetti. La descrizione di cosa sia per lei il mestiere della scrittura, la decisione e la determinazione con cui lo ha svolto e la consapevolezza che quella era l’unica cosa che sapesse fare e che avrebbe avuto senso che facesse. La struttura narrativa, assimilabile al romanzo per l’eleganza della scrittura, emerge già in così poche pagine ed è la testimonianza della grandezza di questa scrittrice. Ne Il mio mestiere c’è anche molto del carattere e delle convinzioni ideologiche e programmatiche della Ginzburg: l’importanza dell’etica, senza la quale, lei in particolare, ma lo scrittore in generale, non hanno nessuna credibilità. Il suo attaccamento alla verità che rappresenta un faro, il filo rosso che attraversa tutta la sua opera.
«L’artista non scrive una frase perché è bella, ma perché è vera. (…) E non è un artista chi sacrifica la propria verità per amore di una bella frase o una bella parola. (…) Dire la verità. Solo così nasce l’opera d’arte.» (quest’ultima citazione è tratta da Dire la verità saggio che compare nella rivista Il Gallo fondata nel 1933 dalla stessa Ginzburg insieme all’amica Bianca Debenedetti)
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